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Il DSM-V, il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, provvede i criteri diagnostici per la schizofrenia. La prima edizione del DSM nacque negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, come risposta al paradosso della pletora di diagnosi di significato diverso, che uno stesso paziente poteva ricevere da più psichiatri. Per quanto il DSM abbia rappresentato un passo avanti nella ricerca di norme diagnostiche uniformanti in psichiatria, esso non deve essere considerato come contenitore di dettami, ma di indirizzi interpretativi da calare in vari contesti, relazionali, familiari, lavorativi e sociali.

Il DSM-V pone per la schizofrenia i seguenti criteri sintomatologici:

  1. Deliri
  2. Allucinazioni
  3. Eloquio (pensiero) disorganizzato
  4. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico
  5. Sintomi negativi

Ci occuperemo del terzo punto, dell’eloquio disorganizzato, ossia dei disturbi della forma del pensiero. Se i disturbi del contenuto del pensiero (i deliri), costituiscono uno degli elementi pregnanti del quadro clinico, non meno importanti sono i disturbi della forma del pensiero.

Quando noi dialoghiamo, cerchiamo di essere corretti nel formulare le proposizioni, in modo tale che il ragionamento sia comprensibile al nostro interlocutore; usiamo frasi con soggetto, verbo, complemento, che abbiano significato e che siano in stretta e consequenziale correlazione tra loro. Il paziente schizofrenico, invece, può sembrare poco chiaro nel suo modo di argomentare, al punto da essere astratto ed ellittico; i nessi associativi appaiono allentati, così che egli salta inspiegabilmente da un argomento all’altro. Si parla in questo caso di deragliamento del pensiero. Risposte non pertinenti alle domande o assoggettate a remote correlazioni vengono definite tangenziali. Nelle forme più gravi, l’eloquio del paziente è così incomprensibile e frammentato da essere connotato come insalata di parole; quest’ultimo quadro può essere scambiato, almeno a primo acchito, con una forma di afasia sensoriale, ovvero con una condizione clinica dovuta a una lesione dell’area posteriore del linguaggio nell’emisfero dominante, come può accadere acutamente in caso di ictus. Vista l’apparente compromissione delle funzioni cognitive, non sorprende che, prima che Bleuler coniasse nel 1908 per questi pazienti il termine di schizofrenia, lo psichiatra tedesco Emil Kraepelin scrivesse, in un suo famoso trattato del 1899, di Dementia Praecox, a voler sottolineare la somiglianza con la demenza descritta dal suo collega Alois Alzheimer, pur con la fondamentale differenza che la prima forma colpiva prevalentemente i giovani, la seconda gli anziani.

È compito comunque dello psichiatra entrare nella “non logica” del paziente schizofrenico, per comprenderne i contenuti del pensiero, tentando con lui una relazione spesso impossibile, almeno nella dimensione di reciprocità che la parola sottintende. Esistono modelli interpretativi di queste alterazioni della forma del pensiero, che pertanto non sarebbero correlabili a una sorta di cieco e casuale determinismo, ma risponderebbero a degli autentici criteri di “illogicità”. Si è affermato che il pensiero schizofrenico si discosti dai principi della logica aristotelica. Prendiamo per esempio il sillogismo di primo tipo, enunciato dal grande filosofo dell’antica Grecia; si susseguono tre proposizioni, le prime due rappresentano le premesse, l’ultima la conclusione. La prima proposizione costituisce un enunciato generale, la seconda un’affermazione più particolare; il termine che nella prima funge da soggetto diventa predicato nominale nella seconda.

  1. Tutti gli uomini sono mortali
  2. Socrate è un uomo
  3. Socrate è mortale

Vediamo adesso a quali conseguenze può invece condurre la distorsione della forma del pensiero nella schizofrenia. Una paziente ad esempio può affermare di essere la Madonna non sulla base di un delirio mistico, ma per mero errore di logica.

  1. La Madonna è vergine
  2. Io sono vergine
  3. Io sono la Madonna.

In questo caso, pur rispettando la gerarchia delle proposizioni – la prima è più generale la seconda è più particolare – si commette nella conclusiva l’errore di passare dall’identità dei predicati nelle prime due all’identità dei soggetti. Tale modalità contraddittoria nei confronti della logica aristotelica viene anche definita pensiero primitivo, e può rappresentare, nell’ambito dei disturbi della forma del pensiero, ciò che gli archetipi junghiani e l’inconscio collettivo sono per i deliri e i disturbi del contenuto.

Dott. Aldo Nocchiero

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