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Dov’è il confine tra noi stessi e il mondo esterno? Cosa succede se tale confine appare sfumato e confuso? Come riusciamo ad avere una percezione coerente e unitaria di noi stessi e degli altri? Si è posto l’obiettivo di rispondere a queste domande lo studio “Tool-use Extends Peripersonal Space Boundaries in Schizophrenic Patients” condotto da Francesca Ferroni, borsista di ricerca dell’Università di Parma nel Laboratorio di Neuroscienze Cognitive Sociali, diretto da Vittorio Gallese, del Dipartimento di Medicina e Chirurgia, e pubblicato sulla rivista “Schizophrenia Bulletin”.

Queste domande non sono solo di grande interesse scientifico per la comprensione della mente umana ma hanno anche una rilevanza clinica, considerando le numerose patologie psichiatriche caratterizzate da disturbi di percezione corporea. Tra queste vi è la schizofrenia, caratterizzata da un problema di confine del sé corporeo: i pazienti non sono in grado di tracciare confini netti tra il sé e l’altro. L’alterazione di tali confini corporei e la conseguente alterazione della distinzione sé-altro che caratterizza tali pazienti si pensa possa essere la manifestazione di una rappresentazione anomala dello spazio che segna il confine percettivo tra sé e gli altri. Questa zona “cuscinetto” che circonda il nostro corpo è nota come spazio peripersonale, dove le interazioni fisiche tra l’individuo e l’ambiente si verificano. Per poterci muovere nell’ambiente circostante senza scontrarci con gli oggetti che ci circondano o le altre persone o per proteggere noi stessi da una potenziale minaccia, il nostro cervello integra continuamente i segnali multisensoriali provenienti dall’interno ed esterno del nostro corpo per predire la nostra posizione spaziale rispetto all’ambiente esterno. Il PPS rappresenta quindi una componente fondamentale della nostra esistenza che agisce non solo come zona di protezione ma che ci permette anche di esplorare il mondo attorno a noi. È infatti uno spazio estremamente plastico, si restringe o si allarga a seconda del tipo di esperienze che facciamo, siano esse sociali o motorie. Ad esempio, se utilizziamo un rastrello per raccogliere delle foglie situate lontane da noi, il PPS si allarga permettendo di raggiungere quello spazio lontano rendendolo ora “vicino”. Al contrario, se invece il mio braccio è immobilizzato, lo spazio si restringe.

La malleabilità che contraddistingue tale spazio è preservata anche in pazienti con schizofrenia? Prime evidenze hanno mostrato come tali pazienti abbiano un PPS più ristretto rispetto a soggetti sani ma ancora nessuno studio ha indagato se tale spazio sia ugualmente plastico. Considerando la rilevanza funzionale di processi plastici per il nostro organismo, risulta cruciale indagare in maniera più approfondita questo aspetto.

I risultati mostrano un’espansione dello spazio peripersonale in seguito a un’interazione atta ad estendere questo spazio sia nei controlli sani che nei pazienti con diagnosi di schizofrenia, mostrando così per la prima volta una preservata plasticità di tale spazio nella schizofrenia. Inoltre, i pazienti, caratterizzati inizialmente da confini spaziali poco definiti, grazie all’interazione motoria, sono in grado di demarcare in maniera più netta i loro confini corporei. Infine, minore è la netta demarcazione iniziale dei confini corporei dei pazienti, maggiore è la gravità dei sintomi negativi, suggerendo una stretta relazione tra i disturbi sé corporeo e la dimensione negativa, caratteristica centrale della psicopatologia della schizofrenia.

Questo studio favorisce un’indagine più approfondita delle anomalie dei confini corporei che caratterizzano la patologia schizofrenica, fornendo conoscenze aggiuntive agli studi traslazionali sulle basi neurali e biologiche del fenotipo schizofrenico. Inoltre, i risultati dello studio evidenziano l’importanza dell’indagine delle radici multisensoriali e motorie dei disordini del sé, aprendo la strada a potenziali futuri interventi di riabilitazione incentrati sul corpo che potrebbero migliorare il confine corporeo indebolito di questi pazienti.

Allo studio scientifico hanno partecipato, per l’Ateneo di Parma, Vittorio Gallese, Carlo Marchesi, Matteo Tonna, Martina Ardizzi, Francesca Magnani, Nunzio Langiulli, Francesca Rastelli, Francesca Giustozzi e Roberto Volpe, unitamente a Francesca Ferri dell’Università “Gabriele D’Annunzio” di Chieti e Valeria Lucarini dell’Université Paris Cité.