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Combattere l’artrosi si può, anche senza bisturi: dopo i trattamenti infiltrativi con farmaci antinfiammatori e quelli a base di acido ialuronico, oggi la ricerca si concentra su infiltrazioni con i derivati del sangue, i cosiddetti PRP, fino ad arrivare ai trattamenti con le cellule mesenchimali estratte dal midollo osseo o dal grasso sottocutaneo.

Parliamo di ortobiologia, metodiche che sfruttano le capacità rigenerative delle cellule del corpo umano con l’obiettivo di stimolare la ricrescita di alcuni tessuti e di attenuare l’infiammazione, trattamenti non chirurgici e mini invasivi che accendono nuove speranze per coloro che fino a qualche anno fa avevano come unica scelta terapeutica l’intervento di sostituzione protesica.

Queste tecniche di medicina riparativa e rigenerativa sono applicabili al trattamento conservativo delle articolazioni, ma anche alla fase post-intervento chirurgico, per migliorarne l’esito, favorendo la guarigione dei tessuti.

L’artrosi è una malattia articolare cronico-degenerativa a carattere progressivo che colpisce in Italia circa 4 milioni di persone: “Per il trattamento dell’artrosi,  patologia degenerativa che aumenta con l’età – spiega Alberto Momoli, Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, SIOT e Direttore UOC Ortopedia e Traumatologia, Ospedale San Bortolo, Vicenza – si sono aperte nuove strade per cure più conservative e, grazie alle tecniche di ortobiologia, siamo entrati in una nuova era in ambito ortopedico. Questo tipo di procedure riguarda però le fasi iniziali dell’artrosi, i gradi 2 e 3. Mentre se l’artrosi è di quarto grado non ci sono alternative all’intervento chirurgico. E’ fondamentale l’intervento precoce”.

Evidenze scientifiche hanno dimostrato l’efficacia delle infiltrazioni con l’acido ialuronico e con il PRP, e la letteratura più recente anche quelle con le cellule mesenchimali, in particolare nell’articolazione del ginocchio.

Fra i trattamenti infiltrativi in prima linea per il trattamento conservativo dell’artrosi di ginocchio c’è l’acido ialuronico che viene iniettato nell’articolazione allo scopo di lubrificarla e nutrire la cartilagine rimanente, una pratica clinica ormai diffusa che mostra benefici anche nell’artrosi dell’anca. Nel caso dell’articolazione del ginocchio, quando la risposta a questa terapia non fosse sufficiente, è possibile ricorrere alle infiltrazioni con i derivati del sangue, PRP. In questo caso, dal sangue del soggetto, opportunamente centrifugato, viene estratto il plasma ricco di piastrine che, iniettato, favorisce il rilascio di fattori di crescita piastrinica, cioè di molecole che consentono ai tessuti di ripararsi e rigenerarsi. Il PRP trova ampia applicazione anche nella rigenerazione dei tendini della spalla.

Un’ulteriore possibilità, ancora in fase sperimentale, è offerta dalle cellule staminali mesenchimali estratte dal tessuto adiposo addominale e poi infiltrate nell’articolazione artrosica.

“Si tratta di una procedura più complessa rispetto a quella prevista dalla cura con il PRP – precisa Momoli – ma si svolge anch’essa in regime ambulatoriale. In entrambi i casi è importante rivolgersi a centri certificati e con elevati standard qualitativi. Quando usato su persone con artrosi, il trattamento a base di cellule mesenchimali, utile anche in caso di tendiniti, è molto efficace sul ginocchio e un po’ meno sull’anca. Bisogna, comunque tener presente che tale cura è in grado solo di rallentare il processo artrosico, ma non di farlo regredire”.

I trattamenti infiltrativi presentano controindicazioni estremamente ridotte con un’attenzione particolare nei soggetti fragili o coloro che fanno uso di farmaci anticoagulanti o presentano varie comorbidità; riguardo le infiltrazioni con il cortisone e con l’acido ialuronico non ci sono particolari controindicazioni a meno che il paziente non presenti allergie a uno dei componenti del farmaco o alterazioni gravi dello stato di salute.

Il trattamento infiltrativo con PRP e mesenchimali viene utilizzato principalmente per trattare quelle artrosi da lievi a moderate, sintomatiche, in cui il danno articolare e la funzione residua permetta ancora margini di un trattamento non chirurgico consentendo così una migliore qualità di vita per il soggetto che, in caso di progressione della malattia, potrà essere sottoposto alla chirurgia protesica.

La scelta delle diverse tecniche, oltre ad aderire alle indicazioni delle linee guida presenti in materia, viene valutata dallo specialista caso per caso, anche nel rapporto costi-benefici.

A fare la differenza è sempre la prevenzione: “Noi produciamo cartilagine fino ai 25-30 anni – conclude Momoli – poi cominciamo a consumarla per vari motivi anche per attività fisica eccessiva o al contrario per sedentarietà. Senza dimenticare che oltre ad un’alimentazione corretta che deve garantire il giusto apporto di calcio è soprattutto il movimento costante uno dei fattori che contribuiscono a prevenire la degenerazione della cartilagine”.