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Qual è il rischio di burn out oggi per le professioni sanitarie? Quali sono le fonti di significato professionale per medici e infermieri nel proprio lavoro, in un quadro generale di risorse e finanziamenti decrescenti, liste d’attesa infinite e grande fuga di personale sanitario dagli ospedali?  – Come ricordato anche nel recente appello della Comunità Scientifica italiana per invertire la rotta e salvare il Servizio Sanitario Nazionale-.

ISTUD Sanità e Salute ha progettato e realizzato la ricerca indipendente da associazioni e ordini, quantitativa e narrativa “La vita nelle organizzazioni sanitarie”, raccogliendo, tra dicembre 2023 e gennaio 2024, le voci ed i punti di vista di 176 professionisti sanitari – con età media di 52 anni, età media analoga a quella registrata per i medici nei dati ISTAT di 54 anni, che si sono narrati in anonimato, facendo emergere il proprio vissuto professionale.

La ricerca si è basata su metodi misti, narrativi e quantitativi: da una parte, un invito narrativo alle parole universali “Mi sento…” “Penso…” “Voglio…” “Con i pazienti…” dall’altra, il test del burn-out predisposto da Cristina Maslach nel lontano 1981 – il Maslach Burnout Inventory – e disegnato per gli operatori della sanità. – Il test di Maslach, test validato universalmente, è lo strumento principe per valutare il burn out strutturato su tre dimensioni di ricerca: la Depersonalizzazione, l’Esaurimento Emozionale e la Realizzazione.

A parità di stratificazione di invii nelle diverse Regioni, il Nord ha risposto con un eloquente 65.9% forse dimostrando quell’attivismo che desidera far luce sulla situazione, per interloquire. Il Centro ha risposto al 19.1 % e il Sud al 15.8%. Il 73.9% delle risposte narrative e quantitative provengono da donne, il 25.5% da uomini e lo 0.6% scrive altro. I dati della WHO 2019, indicano che in Italia, il 70% delle professioni di cura è effettuato da donne e, in questo senso, seppure con una percentuale di poco maggiore, la ricerca è allineata con questo dato.

Per le professioni sanitarie il 44.4% è medico, il 43.3% è infermiere, mentre il restante 12.3 % è composto da psicologi, fisioterapisti, logopedisti ed altre figure che operano in sanità.

I dati pubblici sul burn out dei professionisti sanitari indicavano che un medico su due è in burn out, e per gli infermieri poco meno di uno su due infermieri – fonte: Sole 24ore Sanità, 2023-. Dalla nostra ricerca “La vita dentro le organizzazioni sanitarie” emerge che il rischio di burn out è quasi nullo nella relazione tra professionisti sanitari e pazienti. Questo risultato è dovuto ad una connaturata missione di cura, mentre il rischio di burn out si innalza a livello organizzativo per i carichi di lavoro, per le risorse scarse e soprattutto per l’assenza di “riconoscimento” del lavoro svolto, da parte del management.

L’importanza dell’invito narrativo mette in luce i significati che si nascondono dietro le risposte alle caselle del test del burn out: iniziando dal “Mi sento…”, il disagio totale è presente nel 43% delle narrazioni interpretate, mentre l’agio completo nel 21%: nell’intervallo di questi numeri si posizionano disagi parziali o vissuti di ambivalenza. “Poco valorizzata per le competenze acquisite, le qualità e risorse personali, non coinvolta in progetti nonostante la disponibilità e i titoli”; “la sanità pubblica non mette più al centro la salute del cittadino quindi frustrata”; Sottoutilizzato per le mie capacità professionali. Sottopagato per le responsabilità che mi assumo. Poco o nulla tutelato dal punto di vista medico-legale. Frustrato per non vedere chiare possibilità di carriera”. Ma, per fortuna, anche “molto ben accolto, c’è un ambiente familiare e sorridente, molta autonomia personale e grande apprezzamento per quello che ognuno fa e gestisce, senza rivalità come accadeva nel precedente luogo di lavoro dal quale provengo”.

Quando ci si sposta dal lato emozionale e fisico a quello cognitivo: “Penso …” il disagio totale si abbassa lievemente al 36%, dal 43% di prima, ma l’agio totale si colloca al 12% indicando la criticità permanente della situazione. Penso che “il servizio da me svolto dovrebbe avere maggiore integrazione con gli altri specialisti perché si possa parlare davvero di cura”; “che ci sia bisogno di una spinta innovativa che metta al centro le persone tutte, sia professionisti che utenti”, “che potremmo organizzare meglio tempo e risorse, che spesso di tutta la fatica e gli sforzi che mettiamo in campo ne emerga solo una piccola parte” e anche, penso che “ci sia lo spazio per lavorare con umanità facendo della relazione un prezioso tempo di cura”, “che sono fortunata a lavorare con un bel gruppo”. Questo invito narrativo ha avuto la capacità di spostare i rispondenti dalla dimensione emotiva personale, a quella più organizzativa e di ripensamento dei processi, che necessitano di una maggiore integrazione.

Nella narrazione del “Voglio…” il disagio totale si abbassa nel 10% delle narrazioni contemplate ma è alto il 45% del disagio parziale, con un agio completo del 9%. Accanto a queste testimonianze di missione “raggiunta” “possibilmente essere d’aiuto”, “continuare ad amare questo lavoro”, vi sono: “voglio resistere fino alla pensione”, “voglio andare via”, “lasciare il lavoro”, “volevo… ora faccio il mio e basta”. Narrazioni combattute, estremizzate tra Amore e Morte, con una marcata polarizzazione.

All’invito narrativo “Le persone che curo…”  il disagio totale è solo del 5% e l’agio totale e parziale insieme, raggiungono il 50%, sottolineando il ribaltamento delle percentuali: “devo gratitudine a loro perché i pazienti sono sempre maestri”, “ognuno di loro è un mondo, unico, fragile e meraviglioso da cui ricevo la dimensione dell’importanza, della tristezza e della bellezza della vita, “percepisco la loro gratitudine”, “sono contente del servizio che offro e mi sono grate”. Pochissimi i frammenti narrativi di questo genere: “Sono la maggior parte irriconoscenti e pretenziosi”, “Scarseggiano spesso per educazione, spesso sono sgarbate o aggressive”. Emerge da “Le persone che curo…” l’intensità della gratitudine e del reciproco riconoscimento, un bene comune in difesa del servizio sanitario.

Dai risultati del test sul burn out, emerge che la Depersonalizzazione, ovvero il trattare il paziente come un oggetto con assenza di empatia ha un rischio bassissimo; l’Esaurimento Emozionale non deriva quasi mai dai bisogni dei pazienti, ma dal sistema organizzativo, che esige carichi di lavoro talvolta eccessivi. Sulla Realizzazione, il rischio di burn out consiste nella frustrazione per assenza o scarsa di gratitudine del “management” e non dai pazienti e colleghi. I dati quantitativi confermano quindi i risultati narrativi.

Commenta così Maria Giulia Marini, Direttore Scientifico dell’Area Sanità e Salute di ISTUD. “Il test del burn out di Maslach del 1981 fa vedere quanta strada hanno fatto i professionisti sanitari diventando empatici e compassionevoli senza fatica, e facendo di questo, un punto di forza, non più di debolezza. L’attitudine dei partecipanti ci fa capire quanto, una volta abbracciata la volontà di professare la cura, questa diventi parte identitaria della persona. È dal paziente che si trae il senso della professione di cura: l’allarme, invece, deve scattare nel management che, nella percezione dei suoi collaboratori, è distante e poco riconoscente. Ed è un peccato a fronte di tanta motivazione e competenza”.

Il report completo della ricerca “La vita nelle organizzazioni sanitarie” è disponibile a questo link

Inoltre, la ricerca “La vita nelle organizzazioni sanitarie” sarà presentata da Maria Giulia Marini,Direttore Scientifico dell’Area Sanità e Salute di ISTUD, in occasione del Convegno “Insieme per una nuova primavera: etiche per il BeneComune per intraprendere insieme un percorso di miglioramento della qualità di cura e di vita di tutti, luogo di beni relazionali, nella casa comune – un appello a un’identità nazionale e culturale”.  12 aprile ore 14:00 presso “Sala delle bandiere” al Parlamento Europeo – Via IV Novembre, 149, 00187 – Roma