Print Friendly, PDF & Email

I pazienti con malattie dell’apparato digerente hanno una forte percezione sul ruolo del cibo nella genesi dei loro sintomi ed è frequente che la visita con il gastroenterologo si concluda con domande specifiche sulla dieta e in particolare la richiesta di una lista di alimenti permessi e di alimenti proibiti.  Non sempre il gastroenterologo sa soddisfare le richieste dei pazienti, soprattutto per le limitate e a volte contrastanti evidenze scientifiche sul ruolo della dieta, ma anche una formazione non specifica e un limitato interesse per la nutrizione clinica di molti gastroenterologi, giocano un ruolo chiave.

“Questo ha generato numerosi pregiudizi e falsi miti sul ruolo di alcuni alimenti e il ricorso dei pazienti ad internet o ad altre fonti di informazione non scientifiche – Afferma la Dott.ssa Maria Cappello Consigliere Nazionale Aigo – “Negli ultimi anni, tuttavia, la ricerca di base e clinica si è focalizzata su alcuni aspetti del complesso rapporto tra dieta e malattie dell’apparato digerente e gli studi disponibili ci forniscono alcuni elementi chiave, per fornire consigli dietetici basati sulle evidenze che possano affiancarsi o sostituire le terapie farmacologiche”.

Le malattie infiammatorie croniche intestinali, malattia di Crohn e rettocolite ulcerosa, sono malattie infiammatorie dell’intestino di cui non si conosce la causa. Colpiscono più spesso soggetti giovani dai 20 ai 40 anni, ma possono interessare anche i bambini e i sintomi più comuni sono il dolore addominale e la diarrea, associati spesso a perdita di peso e febbre.

Sebbene la causa non sia nota, si sa che concorrono a determinare queste malattie fattori genetici e ambientali come il fumo di sigaretta e la dieta. L’alimentazione, in particolare, ha un ruolo determinate nell’insorgenza delle MICI: queste malattie, una volta appannaggio del Nord Europa e nel Nord America, sono in aumento nei paesi del bacino del Mediterraneo a causa della progressiva occidentalizzazione della dieta con il consumo crescente di zuccheri raffinati, di bevande gasate ad alto contenuto di fruttosio, di alimenti processati, di grassi saturi e di carni rosse. Una dieta ricca di carboidrati complessi, di grassi insaturi, di frutta e verdura, come la dieta mediterranea, ha invece un ruolo protettivo.

Il paziente con MICI è solito domandare al suo medico che cosa può mangiare e, se non riceve una risposta, tende a evitare tutta una serie di alimenti che considera dannosi come il latte, la frutta e la verdura, i cibi piccanti, i fritti. Le restrizioni sono così esasperate che a volta sono causa di gravi deficit nutrizionali e hanno un impatto negativo sulla qualità della vita, sulla socialità e sul benessere psicologico. In realtà solo l’intolleranza al lattosio è scientificamente riconosciuta nelle malattie croniche intestinali: l’infiammazione della parete intestinale determina la perdita dell’enzima “lattasi” fondamentale per la digestione del lattosio che, rimanendo ingerito nell’intestino, richiama acqua peggiorando la diarrea o viene fermentato dai batteri, determinando gonfiore. L’intolleranza al lattosio nelle MICI è spesso transitoria e si verifica nelle fasi acute. Alcuni pazienti manifestano una intolleranza al glutine. Le fibre specie insolubili possono anch’esse peggiorare i sintomi.

Tenendo presente che non esiste una dieta veramente “specifica” per le MICI, i consigli dietetici e quindi l’offerta di piatti dedicati deve rispettare pochi principi basilari.

Nelle fasi acute e cioè in presenza di sintomi si dovranno: eliminare i latticini freschi, consentendo il consumo di formaggi stagionati e di latte senza lattosio; eliminare i cibi piccanti che stimolano i movimenti intestinali; anche il caffè può stimolare la motilità ed è da ridurre; ridurre frutta e verdura, consentendo centrifugati, passati, puree e vellutate; evitare alimenti integrali, favorire uso di cereali più digeribili e senza glutine.

Nelle fasi di remissione la dieta deve contenere tutte le componenti incluse le fibre privilegiando quelle solubili.

Da limitare l’uso di carni rosse e di alimenti processati, consigliata invece l’assunzione di carni bianche, di pesce e di carboidrati complessi. Un apporto calorico adatto e una regolare attività fisica completano uno stile di vita adeguato.

La steatosi epatica non alcolica comprende l’infiltrazione grassa del fegato e la steatoepatite non alcolica, una variante meno frequente, ma più importante. La steatoepatite non alcolica viene diagnosticata il più delle volte in pazienti tra i 40 e i 60 anni, ma può verificarsi in tutte le età, può progredire verso malattie epatiche gravi come la cirrosi o il cancro epatocellulare. Molti pazienti affetti presentano obesità, diabete di tipo 2 e/o sindrome metabolica.

Poiché nessun farmaco è stato ancora approvato per il trattamento della NASH, gli interventi dietetici e l’esercizio fisico sono generalmente considerati i capisaldi del trattamento di queste patologie.

Diverse associazioni scientifiche evidenziano l’importanza della perdita di peso mirando ad una riduzione del 7%‐10% del peso corporeo raggiunta con una dieta ipocalorica.

Vari studi sono concordi sul beneficio della dieta mediterranea nei pazienti con queste patologie.  Contenendo verdure, frutta, cereali integrali, noci e legumi, olio d’oliva e pesce, la dieta mediterranea è stata promossa per la perdita di peso e il miglioramento dei parametri metabolici; inoltre previene le malattie cardiovascolari.

Negli ultimi anni si stanno accumulando prove che supportano un effetto piuttosto dannoso dell’alcool e recenti linee guida raccomandano l’astinenza completa.

È invece possibile consumare fino a un massimo di 3 tazze di caffè al giorno. La caffeina sembra infatti potenziare l’espressione di sostanze antiossidanti come il glutatione, assicurando effetti benefici sul fegato.

Noci e semi contengono diversi composti bioattivi che sono stati considerati benefici per la salute umana, tra cui FA monoinsaturi e FA polinsaturi, proteine vegetali, fibre, minerali, vitamine, tocoferoli, fitosteroli e polifenoli: un recente studio ha riportato una prevalenza significativamente più bassa di fegato grasso, nei pazienti che consumavano frutta a guscio, almeno 4 volte a settimana.