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È in aumento il numero dei casi di giovani donne colpite da tumore della mammella prima di aver completato il loro desiderio di maternità, complice anche la tendenza di ricercare la prima gravidanza in età sempre più avanzata. Inoltre, le cure oncologiche possono portare a una riduzione della fertilità e della capacità di concepire. La maternità rappresenta quindi un argomento di cruciale importanza per le oltre 11.000 donne in età fertile che ogni anno in Italia sviluppano un tumore al seno; di queste più del 12% risulta essere portatrice della mutazione a carico del gene BRCA.

Lo studio retrospettivo multicentrico, che ha coinvolto 78 centri in tutto il mondo sotto il coordinamento dell’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e che ha ricevuto il supporto dell’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro, è il più ampio mai condotto nelle giovani donne con carcinoma mammario familiare, cioè dovuto a mutazioni nel gene BRCA che predispongono allo sviluppo di diverse forme tumorali, tra cui il cancro al seno e all’ovaio: al progetto hanno partecipato 4732 pazienti colpite entro i 40 anni da tumore della mammella.

 “Al termine delle cure ed entro 10 anni dalla diagnosi, il 22% delle pazienti, 1 su 5, ha intrapreso una gravidanza che è risultata sicura, non aumentando le probabilità di recidiva del tumore né il rischio di complicazioni durante la gestazione sia per la donna sia per il feto – afferma Matteo Lambertini, primo autore dello studio e ricercatore della Clinica di Oncologia Medica del Policlinico San Martino –. I dati riportano che 8 gravidanze su 10 sono avvenute spontaneamente, cioè senza ricorrere a tecniche di procreazione medicalmente assistita”.

Dalla ricerca emerge un’inversione di marcia: “Molti oncologi continuano a sconsigliare una gravidanza a queste donne per la preoccupazione da un lato che gli “ormoni della gravidanza” possano favorire la ricomparsa del carcinoma mammario, essendo un tumore sensibile agli ormoni – aggiunge Lambertini – e dall’altro che una pregressa esposizione a trattamenti oncologici, tra cui la chemioterapia, possa avere conseguenze negative sulla prole”. Inoltre, come afferma la dott.ssa Eva Blondeaux, co-primo autore dello studio e ricercatrice dell’Epidemiologia clinica del Policlinico San Martino, “Il panorama è ben più complesso: diversi studi dimostrano che la paura di trasmettere la mutazione ai propri figli influenza il desiderio di maternità in molte di queste donne. Infine, per scongiurare lo sviluppo di cancro ovarico, queste pazienti sono candidate a ricevere un intervento preventivo di rimozione delle ovaie e delle tube in età molto giovane, intorno ai 40 anni, riducendo quindi la loro finestra riproduttiva. I risultati dimostrano che la gravidanza non dovrebbe più essere sconsigliata in donne portatrici della “mutazione Jolie” che desiderano completare i loro piani familiari dopo aver eseguito un adeguato trattamento per il cancro al seno e un appropriato periodo di osservazione dopo la fine dello stesso”.

La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista “JAMA”, ha anche importanti implicazioni psicologiche, come spiega Lambertini: “Offrire alle pazienti la prospettiva di una maternità sicura può influenzare positivamente l’accettazione della malattia e delle cure necessarie per affrontarla. La speranza e la possibilità di costruire una famiglia possono svolgere un ruolo significativo nel processo di guarigione e nel rendere la vita dopo il cancro il più simile possibile a quella che era prima della malattia”.