Print Friendly, PDF & Email

Grazie al plasma iperimmune, mortalità ridotta dal 13-20 per cento al 6 per cento. È uno dei risultati più incoraggianti emersi dallo studio pilota condotto dall’ASST di Mantova e dal Policlinico San Matteo di Pavia, presentati ieri a Palazzo Lombardia nel corso di una conferenza stampa, con la partecipazione del presidente di Regione Attilio Fontana e dell’assessore al Welfare Giulio Gallera.  

“In altre parole – ha chiarito Fausto Baldanti, virologo del San Matteo di Pavia – da un decesso atteso ogni 6 pazienti, si è verificato un decesso ogni 16 pazienti. Contemporaneamente abbiamo constatato un miglioramento dei parametri al termine della prima settimana, così come la polmonite bilaterale, calata in maniera drastica”.

Lo studio, che ha visto impiegare il plasma da pazienti guariti come terapia per i malati critici, è iniziato il 17 marzo e si è concluso l’8 maggio e sarà pubblicato su una rivista scientifica internazionale. Una strategia utilizzata fin dall’inizio del secolo scorso, che ha ricevuto un crescente interesse nella terapia della MERS (Middle East Respiratory Syndrome da coronavirus), nella influenza aviaria (H1N1 e H5N1), nella SARS (Severe Acute Respiratory Syndrome) e nella infezione da Ebola.

In base a quanto evidenziato dalla letteratura scientifica, ha commentato il direttore generale del San Matteo Carlo Nicora, “l’uso di plasma da donatori convalescenti potrebbe avere un ruolo terapeutico, senza gravi eventi avversi nei pazienti critici affetti da Covid-19”. Nicora ha parlato del vantaggio di reclutare donatori nel luogo in cui avviene la raccolta, con un’immunità specifica acquisita contro l’agente infettivo proprio del ceppo locale. La procedura della plasmaferesi è un ulteriore valore aggiunto, per la sua rapidità ed efficacia. Efficacia e fattibilità dimostrate anche dalla letteratura nell’ambito dell’epidemia mondiale di SARS-CoV-2. I ricercatori si sono posti tre obiettivi: capire se usando il plasma sarebbe diminuita la mortalità nel breve periodo e se sarebbero intervenuti miglioramenti dei parametri respiratori e infiammatori.

“Prendendo il siero di pazienti che hanno superato l’infezione, a due settimane dal primo caso, e aggiungendolo a colture cellulari – ha continuato Fausto Baldanti – abbiamo visto che il virus si fermava. Quindi c’erano anticorpi neutralizzanti”. L’altro elemento da chiarire era fino a che punto la diluizione del siero manteneva la sua efficacia contro il virus. Di qui l’applicazione di un parametro che in linguaggio scientifico si definisce ‘titolo’ e serve per capire quale diluizione di siero è ancora in grado di uccidere il virus in coltura. Il risultato ottenuto ha accertato che il rapporto è 1:640, ossia diluendo 640 volte il plasma di un paziente, questo riesce a uccidere il virus.

“Una volta individuato il donatore – ha aggiunto Cesare Perotti, direttore del servizio Immunoematologia Policlinico San Matteo Pavia – il plasma va raccolto bene, in sicurezza e in modo rapido. Possiamo fare tutto questo grazie ai separatori cellulari, apparecchiature in funzione in almeno 36 centri in Lombardia”. C’è però un percorso di triage da seguire: “Il soggetto deve essere arruolato con visita medica accurata. A questo punto si siede e, in circa 35-40 minuti, si riesce a ottenere una quantità di plasma di circa 600 ml. Quantità ottimale da infondere è circa 300 ml, quindi da un solo paziente convalescente si ottengono due dosi di plasma per le cure”.

Raffaele Bruno, direttore di Malattie Infettive al Policlinico San Matteo di Pavia, ha chiarito come è stato selezionato il campione di pazienti coinvolti nello studio pilota: “Questi studi si fanno su un numero di pazienti limitato. Servono a testare un’idea, per capire se si può operare in sicurezza, con determinati criteri. Il nostro era quello di verificare l’efficacia del plasma. Confermata l’idea si può passare a studi con numeri superiori”. 
Secondo i criteri di selezione, i pazienti dovevano avere più di 18 anni, tampone positivo, evidenziare una difficoltà di respirazione tale da necessitare supporto di ossigeno o necessità di intubazione, una radiografia al torace positiva che mostrasse la polmonite interstiziale bilaterale e caratteristiche respiratorie tali da far preoccupare il clinico sulle loro condizioni. Sono stati arruolati 46 pazienti. Si è concluso il follow up che prevedeva come termine la mortalità a una settimana senza  ingresso in rianimazione. L’arruolamento è avvenuto tra Mantova e Pavia, con un solo paziente proveniente da Novara. Sette erano intubati, tutti avevano necessità di ossigeno e non erano in età avanzata.

“Dobbiamo ringraziare l’Università di Pavia per il grandissimo lavoro scientifico che è stato fatto prima di cominciare la clinica – ha spiegato il Direttore Generale dell’ASST di Mantova Raffaello Stradoni –  quando sono arrivate le prime sacche da Pavia per i nostri clinici è stato un cambio di passo. Mi ha colpito vedere finalmente una speranza per gli operatori che non riuscivano fino ad allora a gestire i pazienti”.
Stradoni ha sottolineato la facilità di questo trattamento terapeutico: “Noi abbiamo un ottimo centro trasfusionale che è stato in grado di raccogliere una grande quantità di sacche, anche con l’aiuto dei donatori. Ringrazio Avis, che ha lavorato egregiamente in questa direzione. Tramite poi un’equipe consolidata, siamo riusciti a produrre e a fornire dati che adesso verranno valutati”.