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I livelli di assistenza sanitaria non sono uniformi su tutto il territorio nazionale e questo provoca una mobilità sanitaria che restituisce un’Italia spaccata in due, divisa fra chi si cura dove vive e chi invece cambia regione per accedere alle cure mediche.

Non solo: il SSN ha sempre meno medici di medicina generale, sempre meno medici d’urgenza, sempre meno infermieri, con offerte diminuite anche per quanto riguarda le strutture ospedaliere e i posti letto. Questa la fotografia attuale del sistema sanitario nazionale scattata oggi durante l’evento che si è tenuto a Roma “#SALUTE24 – Sanità pubblica: l’autonomia differenziata delle Regioni nell’Unione della salute”. Al centro, il grande tema del processo dell’autonomia differenziata iniziato nel 2017 e approdato lo scorso 14 febbraio in Commissione Affari Costituzionali alla Camera dei deputati. Se con il ddl si sta lavorando nella direzione di consentire agli enti locali di individuare percorsi anche differenti per garantire omogenei livelli essenziali di prestazioni, ampliando di fatto poteri e responsabilità delle Regioni, la questione sul tavolo è se davvero l’autonomia differenziata riuscirà a ricucire le differenze tra Regioni in ambito sanitario e a risollevare il SSN. All’evento, organizzato dalla piattaforma editoriale Withub, insieme al sito d’informazione con sede a Bruxelles Eunews, all’agenzia di stampa GEA Green Econmy Agency e a Fondazione art.49, che ha l’obiettivo di diffondere la cultura della partecipazione in ogni ambito, sono intervenuti, tra gli altri, il Presidente della Regione Liguria Giovanni Toti, il Presidente della Lombardia Attilio Fontana, il Presidente della Toscana Eugenio Giani, la Senatrice Beatrice Lorenzin, Ministra della Salute 2013-2018, il Presidente di Egualia Stefano Collatina, il Vice Presidente & General Manager di Incyte Italia Onofrio Mastandrea e il Presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta.

Quello che emerge è il gap tra le diverse regioni italiane. Per questo, molti cittadini decidono di curarsi in una Regione differente rispetto a quella di appartenenza. Secondo i dati AGENAS, il trend della mobilità dei ricoveri in Italia, dal 2017 al 2022, è costante, con un saldo di poco meno di 3 miliardi di euro all’anno. A “guadagnarci” sono state: Lombardia ed Emilia-Romagna, con una saldo attivo pari a quasi 362 milioni di euro la prima e 337 milioni di euro la seconda, e poi Veneto, Toscana, Piemonte, Molise e Trento. Il resto delle Regioni ha avuto nel 2022 un saldo negativo, con Campania, Calabria e Sicilia nelle ultime posizioni. Ma quali sono le Regioni che hanno l’indice di fuga più alto, cioè quelle in cui le prestazioni sanitarie sono erogate ai cittadini in una Regione diversa da quella di residenza? È il Molise a detenere il primo posto per mobilità passiva, con un indice di fuga totale che è oltre il 38%. Al secondo posto la Basilicata e poi la Calabria.

“Nel contesto di un Servizio Sanitario Nazionale profondamente indebolito e già segnato da inaccettabili diseguaglianze regionali, l’attuazione delle maggiori autonomie in sanità è destinata ad accentuare ulteriormente la “frattura strutturale” tra il Nord e il Sud del Paese. Questo significa che le Regioni meridionali diventerebbero sempre più dipendenti dalla sanità del Nord, mettendo a rischio l’uguaglianza dei cittadini nell’esercizio del loro diritto costituzionale alla tutela della salute. Questa tendenza è evidente già oggi: solamente 3 delle 14 Regioni che garantiscono i Livelli Essenziali di Assistenza si trovano nel Sud, e tutte in fondo alla classifica degli adempimenti. Inoltre, l’ingente flusso finanziario della mobilità sanitaria che ammonta a 4,25 miliardi di euro si sposta principalmente dal Meridione verso le Regioni che hanno già sottoscritto accordi per ottenere maggiori autonomie. Le Regioni del Centro-Sud saranno sempre più dipendenti dalle ricche Regioni del Nord con un effetto paradosso: il massimo incremento della mobilità verso le regioni settentrionali rischia di peggiorare l’assistenza sanitaria per i residenti del Nord del Paese”. ha commentato Nino Cartabellotta, Presidente Fondazione GIMBE

La mobilità sanitaria non è l’unica criticità del SSN. L’accessibilità e la qualità dell’assistenza sanitaria è minacciata infatti anche dalla mancanza di medici, in particolare da quelli che garantiscono il primo presidio sul territorio, i medici di medicina generale. Un medico di medicina generale può avere fino a 1.500 assistiti, eppure, secondo una rielaborazione GIMBE su dati Ministero della Salute, in quasi tutte le Regioni italiane, al 1 gennaio 2023,  almeno la metà dei medici di ogni Regione ha un numero di assistiti superiore a 1.500. Qualche esempio: il 71% dei medici di medicina generale della Lombardia ha oltre 1.500 assistiti, segue la provincia autonoma di Bolzano e il Veneto. Numeri alti anche per la Valle D’Aosta, per la provincia autonoma di Trento e per la Campania. Appena sopra il 50% anche l’Emilia Romagna. Friuli Venezia Giulia, Piemonte, Sardegna, Marche, Toscana, Liguria e Lazio sono comunque vicini al 50%. Una fotografia del presente che non accenna a migliorare se guardiamo al futuro. Se calcoliamo il saldo tra i pensionamenti tra il 2023 e il 2026 e il numero di borse di studio finanziate per il Corso di Formazione in Medicina Generale,  secondo GIMBE, nel 2026 il numero di medici di medicina generale diminuirà di 135 unità rispetto al 2022, con nette differenze regionali: Campania, Lazio e Puglia perderanno rispettivamente 384, 231 e 175 medici, mentre Emilia Romagna, Veneto e Lombardia avranno un saldo attivo rispettivamente di 170, 183 e 328 medici. In generale, la maggior parte delle Regioni del centro nord saranno all’attivo. 

La cartina tornasole delle difficoltà della sanità pubblica italiana è rappresentata anche dai Pronto Soccorso. Nel 2023, secondo i dati Simeu sono stati 4mila i medici di emergenza-urgenza mancanti rispetto al necessario. Sempre nell’anno passato, 1.033 medici hanno lasciato i PS, a fronte di 567 nuovi ingressi e ciò significa che il 45% di chi ha lasciato non è stato sostituito. Per coprire i turni di fronte a un’evidente carenza di personale, le soluzioni adottate vanno dall’utilizzo di contratti atipici, medici di altri reparti, specializzandi di emergenza-urgenza o di altri reparti, cooperative e medici non MEU comandati dalla Direzione. Questa situazione di emergenza ha portato 300.000 persone a 3 giorni di attesa prima di avere un posto letto. 

Il problema del personale riguarda anche gli infermieri. Secondo gli ultimi dati relativi al 2021, il numero medio di infermieri in Italia è pari a 6,2 per 1.000 abitanti, rispetto alla media OCSE di 9,9. Anche in questo caso, ritorna la netta divisione tra nord e sud con Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Liguria tra le Regioni con più infermieri, male invece per Calabria, Sicilia e Campania con una media rispettivamente di 3,8, 3,77 e 3,59 infermieri per mille abitanti. 

Secondo i dati rielaborati analizzando il database Istat “Rapporto Noi Italia 2023” e il portale I.Stat, nel 2004 l’Italia contava 1.296 strutture ospedaliere. Nel 2021 sono scese a 1.051, con un decremento del 19% e, se si esclude la Lombardia e la Valle d’Aosta, tutte le Regioni hanno diminuito l’offerta ospedaliera o l’hanno lasciata intatta. Salta all’occhio, tra le performance peggiori, quella del Lazio. Non va meglio a chi cerca un posto letto in degenza ordinaria: nel 2004, in Italia, l’offerta era pari a 231.915, diminuita a 209.568, con un decremento del -10%. Molise e Calabria fanno segnare le performance peggiori.

“Il riconoscimento di ulteriori forme di autonomia alle Regioni in ambito sanitario rischia di rendere legalmente ammissibile l’esistenza di 20 diverse politiche di rimborso. Già oggi in base alle prerogative regionali in materia di farmaci ci troviamo a confrontarci con  forme alternative di distribuzione ed acquisto che determinano effetti distorsivi del mercato e difficoltà di accesso per i pazienti di alcune Regioni rispetto ad altre. L’accentuarsi di questi fenomeni renderebbe impossibile per l’industria gestire lo scenario estremamente complesso ed imprevedibile che ne deriverebbe” ha detto il Presidente di Egualia – Industrie Farmaci Sostenibili, Stefano Collatina che sulla pharma legislation ha aggiunto “Il pacchetto della pharma legislation approvata ad assoluta maggioranza il 10 aprile dal parlamento UE, conferma un cambiamento culturale importante: si  punta a riportare al centro non l’industria ma i pazienti. Non sono misure contrapposte agli intessi dell’industria europea, che ha comunque bisogno di essere sostenuta con un idoneo piano industriale di supporto: le norme approvate continuano  a fornire il periodo di protezione dati e di mercato di gran lunga più lungo al mondo cercando però anche di ridurre i ritardi nell’accesso ai medicinali generici e biosimilari che rappresentano il 70% delle terapie croniche all’interno dell’Unione”. 

“Le sfide di salute globali che l’Europa deve affrontare richiedono risposte comuni e coordinate. Allo stesso tempo, i sistemi sanitari nazionali devono rispondere al meglio alle specifiche esigenze di salute dei propri cittadini, garantendo un accesso equo e tempestivo alla diagnosi e all’innovazione terapeutica in tutto il proprio territorio. Le due dimensioni – quella sovranazionale e quella di “prossimità” – solo apparentemente possono sembrare in contrasto. Sono invece due prospettive da cui guardare a uno stesso obiettivo: la tutela della salute del cittadino, che solo mediante un’integrazione di questi due livelli potrà essere garantita nello scenario complesso che oggi attraversiamo” ha detto Onofrio Mastandrea, Vice Presidente & General Manager di Incyte Italia