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Davanti a loro una diagnosi difficile da accettare: anche la seconda gravidanza metteva a rischio il bambino che la madre portava in grembo a causa della discordanza del fattore Rh di madre e feto e dalla presenza di un altissimo livello di anticorpi anti Rh nella madre. Nei loro occhi di genitori l’angoscia di dover ricorrere a trasfusioni in utero del feto consapevoli che ciascuna portava con sé un alto tasso di rischio di aborto o morte in utero del feto. Ma la sinergia tra la struttura di Ostetricia e il Centro trasfusionale dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma ha aperto altre prospettive.

“Questi anticorpi anti Rh della madre come già successo nella prima gravidanza – spiega Tullio Ghi direttore della struttura complessa di Ostetricia e ginecologia– avrebbero attraversato la placenta e causato inevitabilmente una anemia fetale grave. Già nella seconda visita presso l’ambulatorio gravidanze a rischio del nostro ospedale avevamo prospettato alla coppia l’assoluta necessità di controlli settimanali per valutare i primi segni di anemia e ricorrere a trasfusioni fetali in utero ripetute appena questa fosse comparsa”.

“Il loro spavento – continua il prof. Ghi – ci ha indotto a cercare un trattamento innovativo che potesse limitare il rischio di anemia fetale senza implicare l’effettuazione di procedure invasive del feto. E grazie ad un confronto personale con i pochi esperti al mondo, insieme a Maurizio Soli, direttore del Centro trasfusionale, abbiamo elaborato una strategia terapeutica personalizzata per la nostra paziente”.

“Mediante la plasmaferesi – spiega Soli – abbiamo rimosso gli anticorpi nocivi dal sangue della madre e somministrato immunoglobuline per rafforzare la barriera agli anticorpi. La paziente ha aderito con fiducia alla nostra proposta e dalla 16a settimana di gravidanza si è sottoposta ogni settimana  al nuovo trattamento con controlli ecografici del feto”.

La risposta di mamma e feto è andata oltre le attese. “Stando ai dati pubblicati, pensavamo che questa terapia ci consentisse di arrivare all’inizio del settimo mese – precisa Ghi -. Invece, insperatamente e con grande gioia dello staff medico oltre che dei genitori, la terapia medica effettuata ha consentito al feto di mantenersi in salute fino ad oltre all’ottavo mese e, senza ricorrere a trasfusioni e a procedure invasive, il parto è stato programmato in sicurezza prima che si sviluppasse una anemia severa”.

Il neonato a distanza di oltre due mesi dal parto gode di ottima salute e i genitori sono felici di aver coronato un sogno che sembrava quasi impossibile da realizzare.

“E’ la prima volta, stando all’attuale letteratura, che questa terapia medica della incompatibilità Rh tra madre e feto viene utilizzata in Italia – aggiunge Ghi – . Confortati dal successo finale della gravidanza e dall’assenza di complicazioni per la madre e per il bambino contiamo di riproporre questa strategia in casi del genere anche   nel prossimo futuro”.  

Ai professionisti delle strutture i ringraziamenti del direttore generale di Azienda Ospedaliero-Universitaria Massimo Fabi e dell’Assessore alle Politiche per la salute Raffaele Donini che così conclude: “Il risultato raggiunto a Parma premia ancora una volta la competenza dei nostri professionisti e, grazie a questo, restituisce serenità a una famiglia che ora può guardare al futuro con tranquillità. L’intervento certifica la qualità di una sanità pubblica in grado di gestire problematiche complesse grazie al valore della ricerca applicata alla clinica. Complimenti quindi agli staff del prof. Ghi e del dottor Soli e un abbraccio al bimbo per una vita piena di soddisfazioni”.