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La manifestazione clinica del Covid-19 è molto variegata: la malattia può assumere forme totalmente asintomatiche, emulare un lieve raffreddore o produrre polmoniti severe che richiedono il ricovero in terapia intensiva.

Questa variabilità a livello del singolo paziente non è però frutto di una roulette russa. C’è una ragione se alcune persone rischiano più di altre, e solo grazie alla ricerca possiamo riuscire a comprenderla, proteggere i soggetti più a rischio e sviluppare approcci terapeutici mirati.

Oggi siamo un passo più vicini a questo risultato, grazie al lavoro del consorzio internazionale “Covid Human Genetic Effort”, che coinvolge oltre 150 istituti di ricerca e ospedali di tutto il mondo, tra cui l’IRCCS Ospedale San Raffaele, insieme ad altri centri italiani.

Due studi condotti all’interno del consorzio e pubblicati in coppia sulla prestigiosa “Science Immunology” dimostrano infatti che all’origine di gran parte delle forme gravi di Covid-19 ci sono predisposizioni di tipo genetico o autoimmune, in grado di spiegare circa 1 decesso ogni 5.

Gli studi, condotti sotto il coordinamento generale di Jean Laurent Casanova, della Rockefeller University di New York, e di Luigi Notarangelo e Helen Su, entrambi del National Institute of Allergy and Infectious Diseases di Bethesda, sono il proseguimento di due lavori apparsi su Science a settembre 2020.

Pur nella loro diversità di funzionamento, questi 2 tipi di predisposizione sono accumunati dal fatto di risultare entrambi in un difetto nella produzione o nell’utilizzo dell’interferone I, un gruppo di molecole fondamentali per la risposta immunitaria innata, quella che entra in gioco per prima a seguito di una minaccia infettiva.

“L’interferone I gioca un ruolo chiave nel garantire l’attivazione rapida ed efficace della risposta immunitaria innata, quella che entra in gioco per prima, in attesa che la risposta adattiva, più lenta e di cui fanno parte gli anticorpi, abbia il tempo di fare il suo corso,” spiega Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica, professore ordinario dell’Università Vita-Salute San Raffaele e membro del comitato direttivo di CovidHGE.

“Ecco perché chi ha problemi nel produrre o utilizzare queste molecole rischia così tanto nel caso di infezione con SARS-CoV-2: perché essendo un virus totalmente nuovo il sistema immunitario ha bisogno di più tempo per produrre gli anticorpi e può contare per parecchi giorni solo sulla sua immunità innata. Un fallimento di quest’ultima porta a un insufficiente controllo dell’infezione.”

I due studi pubblicati dal consorzio CovidHGE su “Science Immunology” spiegano per la prima volta alcune delle incognite riguardo le forme gravi di Covid-19 e aprono la strada a nuove possibili strategie di prevenzione nei soggetti a rischio e di trattamento mirato.

Il primo studio si concentra sul ruolo di alcune varianti geniche, dimostrando che l’1% delle forme gravi di Covid-19 negli uomini giovani è dovuta a una rara mutazione recessiva di un gene presente sul cromosoma X, chiamato TLR7, fondamentale per stimolare la produzione di interferone I.

Questa mutazione, trovandosi sul cromosoma X, ha impatto solamente nella popolazione maschile, che non possiede una seconda copia del gene.

“Mutazioni di questo tipo potrebbero spiegare perché le forme gravi di Covid-19 colpiscono maggiormente le persone di sesso maschile anche in giovane età. Si osserva, infatti, che in media, anche nelle persone giovani, il rischio di contrarre forme gravi della malattia negli uomini è circa 1 volta e mezza quella della popolazione femminile,” spiega Giorgio Casari, responsabile della genomica clinica presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano e professore ordinario di Genetica Medica all’Università Vita-Salute San Raffaele.

Il contributo del San Raffaele alle attività di sequenziamento è stato possibile grazie alla conservazione dei campioni di tutti i pazienti Covid-19 all’interno della biobanca dedicata, istituita presso l’ospedale nel pieno dell’emergenza sanitaria.

Il secondo studio si è concentrato su un altro meccanismo responsabile di interferire con il funzionamento dell’interferone I nelle prime fasi dell’infezione: in questo caso, infatti, invece di mutazioni genetiche presenti dalla nascita, a bloccare gli interferoni sono degli auto-anticorpi.

Secondo i dati dello studio, la frazione di pazienti con forme gravi di Covid-19, che presenta in circolo auto-anticorpi contro gli interferoni I, è piuttosto ampia: più del 20% dei pazienti over 80; oltre il 13% in tutte le fasce d’età.

Non solo, ma la presenza di auto-anticorpi risulta responsabile di circa il 20% dei decessi per Covid-19, anche qui indipendentemente dall’età.

“La presenza di questi auto-anticorpi precede l’infezione da Covid-19, come dimostra l’analisi di campioni di sangue precedenti il contagio, e spiega la distribuzione dei casi gravi, sia dal punto di vista della suscettibilità degli anziani che della disparità tra i sessi.

Secondo i dati che abbiamo analizzato, infatti, la presenza degli auto-anticorpi è più probabile all’aumentare dell’età, raggiungendo il 4% della popolazione generale sopra i 70 anni. Non solo, ma è molto più frequente nel sesso maschile,” spiega Lorenzo Piemonti, direttore del Diabetes Research Institute e professore associato all’Università Vita-Salute San Raffaele.

L’analisi degli auto-anticorpi per l’interferone I nei campioni San Raffaele è stata effettuata con un test specifico messo a punto proprio nei laboratori del DRI, frutto della lunga esperienza dell’istituto nell’analisi degli auto-anticorpi per lo studio del diabete di tipo 1.

La ricerca condotta dal consorzio CovidHGE ha diverse implicazioni cliniche: la possibilità futura di riconoscere la popolazione a maggior rischio per le polmoniti gravi da Covid-19, tramite test genetici o test per gli anticorpi, offrendo a loro cure tempestive e mirate; la probabile efficacia di terapie a base di Interferone I nelle prime fasi di malattia in soggetti selezionati, perché incapaci di produrlo correttamente; la suscettibilità di questi individui per altre malattie virali emergenti; la necessità di testare il plasma iper-immune, prelevato da pazienti guariti al Covid-19, prima del suo utilizzo terapeutico: l’eventuale presenza di auto-anticorpi contro l’interferone I rischia di ridurre l’efficacia del trattamento nei pazienti in cui viene infuso il plasma.