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Secondo le stime più recenti ci sono, in Italia, 500.000 pazienti colpiti dalla malattia di Parkinson che si colloca come la seconda patologia neurodegenerativa più comune, dopo l’Alzheimer. La patologia, progressiva e fortemente invalidante, è caratterizzata da tremori involontari, lentezza nei movimenti, rigidità degli arti, mancanza di equilibrio.

La dimensione del problema è evidenziata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che prevede ben 12 milioni di Parkinsoniani  entro il 2040, con una prevalenza di uomini.

Ma uno degli aspetti più preoccupanti riguarda l’età di esordio della malattia che si è notevolmente abbassata, smentendo il “luogo comune” secondo il quale la patologia colpisce prevalentemente gli anziani. Le evidenze segnalano che la metà dei casi insorge tra i 40 e i 58 anni, il 25% tra 20 e 40 anni, mentre solo il restante 25% riguarda pazienti over 80.

Della malattia e delle sue implicazioni personali, mediche, sociali, si parlerà domenica 10 aprile, nella “Giornata Mondiale del Parkinson”, per ricordare che la cura di questa malattia è una delle grandi sfide del futuro.

Non mancherà, nelle analisi degli esperti, l’impatto che il Covid ha avuto e continua ad avere sui pazienti parkinsoniani, le cui condizioni sono notevolmente peggiorate sia dal punto di vista fisico che psicologico. Va ricordato, infatti, che questi malati soffrono di problemi motori che rendono difficili semplici gesti di vita quotidiana ma, anche, di disturbi collaterali non strettamente fisici ma ugualmente rilevanti . Relazioni interpersonali difficoltose, distanze, mancanza di attività fisica generano ansietà, depressione e decadimento cognitivo. Si aggiunga che la pandemia e le difficoltà negli spostamenti hanno limitato i supporti infermieristici e le sedute di fisioterapia rinviando o annullando molte visite di controllo . Una emergenza che le soluzioni tecnologiche hanno parzialmente alleggerito ma che evidenziano ancora una volta la fragilità e “dipendenza” di questi pazienti, connotando la malattia di Parkinson come un enorme problema medico e sociale.

In termini clinici, la malattia di Parkinson rientra nelle patologie definite “Disordini del Movimento”. La sua insorgenza va ricondotta alla progressiva morte dei neuroni situati nella “sostanza nera”, piccola area del cervello che, attraverso la dopamina, controlla i movimenti del corpo. La perdita di oltre il 60% di queste cellule genera la patologia che solitamente interessa  una metà del corpo e si manifesta con sintomi quali tremori involontari di alcuni organi; rigidità muscolare che rende difficili o impossibili molti movimenti; bradicinesia, ovvero il rallentamento progressivo delle attività motorie; acinesia, cioè difficoltà ad iniziare un movimento; instabilità posturale e conseguente perdita dell’equilibrio; congelamento dell’andatura, anche noto come “freezing of gait”, una situazione improvvisa e transitoria nella quale il paziente è incapace di iniziare o proseguire qualsiasi movimento.

Ai sintomi che riguardano l’area motoria se ne associano altri, spesso non identificati, quali postura curva, voce flebile, difficoltà di deglutizione, stipsi, disturbi urinari, pressione arteriosa, ecc.

Ad oggi la malattia di Parkinson viene considerata “incurabile” e affrontato con un insieme di strumenti soprattutto finalizzati a migliorare i sintomi: monitoraggio, trattamenti farmacologici, interventi chirurgici, supporti psico-sociali, esercizio fisico, dieta bilanciata aiutano a convivere con una quotidianità molto difficile. Le terapie farmacologiche puntano a mantenere situazioni di “equlibrio” per lunghi periodi, come la levodopa, terapia non sempre facilmente reperibile ma che può migliorare la sintomatologia parkinsoniana anche per anni; a questa  si possono aggiungere gli inibitori delle monoamino ossidasi B; gli anticolinergici per il controllo del tremore; l’amantadina impiegata nelle forme iniziali oppure, ancora, gli enzimi deputati a degradare la levodopa e che vengono impiegati per renderla più tollerabile.

È però sul fronte della “neurochirurgia funzionale” che la scienza ha fatto i passi più significativi. Soprattutto con la Stimolazione Cerebrale Profonda, oggi la procedura chirurgica più evoluta per ridurre i sintomi legati ai disturbi del movimento.  

La DBS è un intervento efficace e sicuro che prevede l’introduzione di un sottilissimo elettrodo nella zona del cervello responsabile dei tremori, collegato a un piccolo stimolatore impiantato sottocute, all’altezza della clavicola. Gli impulsi elettrici arrivano a stimolare il “centro nervoso” individuato come bersaglio e favoriscono la migliore trasmissione dei segnali dal cervello , riducendo drasticamente i sintomi motori.

Boston Scientific ha condotto innumerevoli ricerche e studi clinici sulla neurostimolazione e ha messo a punto una procedura DBS caratterizzata da un sistema  direzionale costituito dal neurostimolatore Vercise Gevia e dal catetere che seleziona in modo accurato  il bersaglio verso cui indirizzare la  stimolazione. Il sistema è stato potenziato di recente con i dispositivi Stimview e Guide XT che permettono il posizionamento degli elettrodi con altissima precisione e migliorano in modo significativo le tecniche di imaging pre e post intervento.

I dispositivi impiantabili di Boston Scientific sono dotati di batterie “tradizionali” che si esauriscono dopo circa 5 anni e  devono essere sostituite, oppure  di batterie ricaricabili, con previsione di durata fino a 25 anni, che possono essere ricaricate direttamente dal paziente. La ricarica, semplicissima e gradita all’ 87.3% dei pazienti, viene effettuata tramite una piccola placca collocata all’altezza del generatore di impulsi e racchiusa in una fascia appoggiata sulla pelle. Superfluo sottolineare che la ricaricabilità delle batterie offre un formidabile vantaggio al paziente che non deve affrontare interventi di sostituzione del dispositivo, le complicanze associate alle sostituzioni , le possibili perdite di efficacia del dispositivo, ecc. 

Le evidenze cliniche sulla DBS confermano miglioramenti già nei primi giorni successivi all’intervento ma uno degli aspetti più rilevanti è soprattutto la riduzione dei farmaci dopaminergici dal 59% all’80%, mentre alcuni pazienti non necessitano più di alcuna terapia farmacologica. Il miglioramento complessivo della qualità di vita si traduce in minore carico per le famiglia ma, anche, in risparmi concreti per il Servizio Sanitario nazionale, grazie alla minore incidenza di re-interventi di sostituzione e possibili  complicanze

Purtroppo, nonostante l’efficacia terapeutica della Stimolazione Cerebrale Profonda sia universalmente riconosciuta, nel nostro Paese il ricorso a questa procedura è tuttora limitato, sia per la mancanza di un efficace network fra neurologi e neurochirurghi, sia per la disomogeneità delle procedure e dei sistemi di rimborso nelle diverse Regioni.