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La carenza di Vitamina D, nota per avere marcati effetti negativi sul sistema immunitario di chi ne è affetto, è stata ampiamente dimostrata come fattore di rischio per l’infezione da COVID-19 e per lo sviluppo di una forma più severa della malattia. 

Un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista internazionale “The Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism” ha ora mostrato che anche i pazienti affetti da Long-COVID hanno ridotti livelli di Vitamina D. 

Il lavoro, condotto presso l’IRCCS Ospedale San Raffaele, è stato coordinato dal Professor Andrea Giustina, primario dell’Unità di Endocrinologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, professore Ordinario di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Università Vita-Salute San Raffaele.

I ricercatori del San Raffaele hanno valutato, tramite esami ematochimici, lo status Vitaminico D in 2 gruppi di pazienti, affetti e non da Long-COVID, a 6 mesi dalla dimissione ospedaliera, per comprendere la correlazione tra la malattia e un eventuale deficit della vitamina stessa. 

Per farlo, sono stati selezionati pazienti affetti da malattia acuta da COVID-19 della stessa severità, con le stesse principali caratteristiche demografiche e malattie croniche preesistenti, per ridurre al minimo l’influenza di altri possibili fattori clinici interferenti. 

Il lavoro ha evidenziato come i pazienti Long-COVID abbiano livelli di Vitamina D inferiori rispetto a coloro che non ne soffrono. In particolar modo, questa differenza appare impattare soprattutto sulla sfera neuro-cognitiva. 

I ricercatori hanno descritto come, nella coorte dei pazienti analizzati, bassi livelli di Vitamina D si associano alla presenza della sindrome Long-COVID e ad un maggior rischio di svilupparla, confermando, ancora una volta, come questo ormone possa avere importanti riflessi sulla modulazione del sistema immunitario e multi-sistemico del nostro corpo. 

Sulla base di questi dati, dunque, appare appropriato tenere monitorati i valori di Vitamina D circolante nei pazienti post-COVID e offrire una supplementazione, in caso di carenza, per ridurre il rischio di Long-COVID. 

Si tratta di una condizione che segue la malattia e si manifesta una volta che il paziente è guarito e può essere presente a circa 3 mesi dalla fase acuta fino al 50-70% dei pazienti. Questa è caratterizzata dalla persistenza, o neo-insorgenza di una serie di sintomi multi-sistemici che coinvolgono la sfera: dei sensi gustativi e olfattivi; muscolo-scheletrica; respiratoria; metabolica; neuro-cognitiva. 

Lo studio pubblicato riguarda un tema, quello della vitamina D nel COVID-19, sul quale vi è grande interesse nel mondo scientifico e a cui l’Unità di Endocrinologia dell’IRCCS Ospedale San Raffaele ha dato un contributo di assoluto rilievo fin dall’inizio della pandemia con studi  pionieristici, che hanno evidenziato come la carenza di vitamina D sia un fattore di rischio sinergico con obesità e diabete mellito per COVID-19 severo e che può predire il rischio di peggioramento clinico anche in soggetti con COVID-19 che sono ricoverati in Ospedale in condizioni cliniche non severe. 

Infine, i ricercatori del San Raffaele hanno descritto per primi come l’ipocalcemia sia un riscontro altamente frequente nei pazienti ospedalizzati per COVID-19 e che la carenza di vitamina D è alla base di questo elevato rischio di ipocalcemia.

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