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Diabete fuori controllo, fumo di sigaretta, colesterolo alle stelle e pressione alta, in aggiunta agli anni che passano fanno ammalare le nostre arterie. Tutti sanno che le placche aterosclerotiche, restringendo i vasi e quindi riducendo l’afflusso di sangue a organi e tessuti, possono provocare infarti e ictus. Molto meno note sono le conseguenze dell’aterosclerosi a carico delle arterie degli arti inferiori, la cosiddetta arteriopatia obliterante o PAD, che può portare in casi estremi, se non ben trattata, all’amputazione di una gamba.

Ma come mai, a parità di fattori di rischio ‘tradizionali’ alcuni pazienti sviluppano una malattia gravissima, mentre altri sono meglio gestibili con i farmaci? Un’iniziale risposta a questa domanda viene da una review appena pubblicata da Andrea Flex e Federico Biscetti su “International Journal of Molecular Sciences”, che fa il punto della situazione su una serie di nuovi fattori di rischio ‘invisibili’, ma determinanti sia nell’accelerare lo sviluppo di aterosclerosi, che nel condizionare la durata degli effetti di un trattamento di rivascolarizzazione.

“Il trattamento della PAD – spiega il professor Flex – mira a ripristinare un flusso di sangue sufficiente per tutti i distretti delle gambe e questo si ottiene con i farmaci, con le procedure di rivascolarizzazione endovascolari o con la chirurgia. Ma la prima ‘terapia’ da consigliare sempre a questi pazienti è quella di camminare con regolarità, pur rimanendo sempre sotto la soglia del dolore, cioè con un’andatura che ne eviti lacomparsa”.

La terapia farmacologica della PAD si basa su molecole che rendono più fluido il sangue: gli antiaggreganti piastrinici come l’aspirina e il clopidogrel, ai quali si è aggiunto di recente l’anticoagulante rivaroxaban a dosaggio ‘vascolare’. Si utilizzano anche farmaci che dilatano le arterie, come il cilostazolo, che aumenta l’autonomia di marcia e riduce il dolore, migliorando così la qualità di vita del paziente. Un ruolo fondamentale è giocato dai farmaci anti-colesterolo; un paziente con PAD dovrebbe mantenere i suoi livelli di colesterolo ‘cattivo’ al di sotto dei 55 mg/dl. Fondamentale infine è un ottimale controllo del diabete e dei valori pressori. “Quando i farmaci non sono più sufficienti – prosegue il professor Flex – la claudicatio peggiora e si deve ricorrere agli interventi di rivascolarizzazione, cioè di riapertura ‘meccanica’ delle arterie. Questo si effettua mediante angioplastica o, qualora ciò non fosse possibile, con un intervento chirurgico di by-pass”.

Nel caso delle procedure di rivascolarizzazione endovascolare la durata dei benefici dell’intervento varia molto da paziente a paziente, anche a parità di fattori di rischio e del loro controllo. “Abbiamo dunque cominciato a pensare – spiega il dottor Federico Biscetti, responsabile della UOS – che questi pazienti potessero avere dei fattori di rischio ‘nascosti’, che ancora non avevamo considerato. Se un’arteria tende a richiudersi precocemente dopo l’angioplastica, la causa va ricercata nel ‘profilo’ infiammatorio del paziente, cioè nella sua esuberante produzione di molecole infiammatorie che rendono le arterie più prone a richiudersi di nuovo. Ma anche il tessuto adiposo gioca una parte importante nel processo aterosclerotico, sia in senso protettivo, che negativo.  I pazienti che producono tanta omentina sembrano essere protetti dall’aterosclerosi, mentre al contrario quelli che producono troppa sortilina sono più a rischio di PAD anche perché questa interferisce col metabolismo delle LDL”.

“In un prossimo futuro dunque – commenta il professor Flex – oltre a considerare i fattori di rischio ‘tradizionali’ per aterosclerosi, dovremo profilare i pazienti in base a questi altri biomarcatori che stanno emergendo giorno per giorno, in un’ottica di medicina sempre più personalizzata. Nei soggetti con profilo infiammatorio ‘esuberante’ in attesa di trovare una terapia mirata per questa condizione, sarà indicato un follow up più stretto e dovremo mettere in campo strategie terapeutiche più aggressive”.

Avere la possibilità di coprire tutti gli aspetti della presa in carico del paziente con PAD offre la possibilità di individuare e strutturare il trattamento migliore per ciascun paziente. “La migliore strategia terapeutica per un determinato paziente – spiega il professor Flex – viene definita durante le regolari riunioni del Vascular Team, gruppo multidisciplinare del quale fanno parte internisti cardiovascolari, angiologi, diabetologi, nefrologi, chirurghi vascolari, radiologi interventisti, cardiologi interventisti, anestesisti e ortopedici. Nell’ambito del team, la figura dell’internista cardiovascolare ricopre un ruolo cardine per la gestione dell’alta complessità che caratterizza questa tipologia di pazienti che nei due terzi dei casi sono anche colpiti da patologia coronarica e/o cerebrovascolare. Fondamentale per una presa in carico a 360 gradi del paziente con aterosclerosi degli arti inferiori è il collegamento al medico di medicina generale, che gioca un ruolo determinante nella prevenzione e nella diagnosi precoce della malattia”. Il centro di Medicina Interna Cardiovascolare del Gemelli segue oltre 800 pazienti con arteriopatia periferica ogni anno; metà di questi vanno incontro ad una procedura di rivascolarizzazione dell’arto inferiore.

Giovanni, un ex fumatore di 70 anni è iperteso, sovrappeso e ha il diabete da una ventina d’anni. Da qualche mese, quando cammina si deve fermare dopo un centinaio di metri per un dolore al polpaccio; negli ultimi tempi, il fastidio compare dopo pochi metri di marcia. Pensando che dipenda dalla schiena, Giovanni si è fatto una radiografia della colonna ed è andato da un ortopedico, che però non ha trovato nulla di anomalo. Da un paio di settimane, ha notato la presenza di un’ulcera sull’alluce destro, che non guarisce. Il medico di famiglia, dopo averlo visitato, gli ha consigliato di rivolgersi al nostro centro.

La storia di Giovanni è emblematica di cosa succede in presenza di arteriopatia obliterante degli arti inferiori, una patologia poco conosciuta di cui soffre fino a un italiano su 5 oltre i 70 anni d’età; le persone con diabete hanno un rischio fino a 4 volte superiore rispetto alla popolazione generale di sviluppare arteriopatia periferica. Fondamentale segnalare subito questi sintomi al proprio medico di famiglia, che dopo aver visitato il paziente, chiederà un ecodoppler arterioso degli arti inferiori e lo invierà allo specialista di medicina interna cardiovascolare, per definire la migliore strategia terapeutica.