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Proviamo a immaginare la scena preliminare di un rigore: mentre l’attaccante avversario si avvicina lentamente e poggia la palla sul dischetto, il portiere si fa attento, il suo sguardo è fisso, l’ammiccamento delle palpebre si riduce al minimo, il viso è una maschera di rigidità mimica, il tronco si flette in avanti, anche le cosce sono lievemente flesse sulle gambe. Ma che rapporto ci può essere tra il portiere che si prepara a parare un rigore e la malattia di Parkinson? Per rispondere alla domanda occorre fare un passo indietro.

La m. di Parkinson è, in ordine di frequenza, la seconda malattia neurodegenerativa, dopo la m. di Alzheimer. La prevalenza viene calcolata nell’ordine dello 0,1%, ma cresce con l’età fino a interessare il 6% dei novantenni. La fisiopatologia della m. di Parkinson è da ricercare in un cattivo funzionamento dei circuiti neuronali dei gangli della base. I gangli della base sono delle strutture anatomiche filogeneticamente più antiche, già presenti pertanto in specie animali inferiori, aventi la funzione di presiedere alla regolazione dei movimenti automatici e involontari, e di partecipare all’apprendimento motorio. I gangli della base comprendono lo striato, il pallido, la substantia nigra, il talamo; tali nuclei sono in connessione l’uno con l’altro in modo da formare una lunga catena funzionale con stazioni di partenza e di arresto degli impulsi, che possono avere valore inibitorio o eccitatorio.

Se abbiamo appena guardato, seduti in poltrona, il portiere della nostra squadra parare un rigore negli ultimi secondi prima del fischio di chiusura dell’incontro, e subito dopo decidiamo di alzarci per prendere una birra, possiamo considerare che l’impulso, che dà avvio alla nostra azione, parta dalle aree cerebrali che presiedono alla motivazione, ma che poi questo prenda la via dei circuiti più prettamente motori; ci alziamo e ci dirigiamo verso il frigorifero, ma nel tragitto potremo notare una serie di movimenti involontari e automatici: nel metterci in piedi il nostro corpo equilibra il peso attraverso aggiustamenti posturali, le braccia pendolano mentre camminiamo verso il frigorifero; si tratta di programmi motori in parte innati, in parte appresi, ma che non rientrano nella sfera della nostra volontà. Pertanto, l’impulso motivazionale, che ci fa venire voglia di festeggiare con una birra, passa dalla corteccia associativa motoria cerebrale ai circuiti dei gangli della base e qui si arricchisce di tutte le informazioni necessarie per rendere l’azione programmata il più possibile completa anche delle componenti automatiche che ottimizzano i movimenti stessi. Sono proprio questi circuiti automatici, quelli dei gangli della base, a funzionare male nella m. di Parkinson. Un altro punto importante è la focalizzazione del movimento, cioè l’impulso motivazionale deve anche essere deprivato di eventuali altri movimenti parassiti, che renderebbero la sequenza gestuale poco efficace.

Sono noti due circuiti nei gangli della base: un circuito diretto, dopo opportuni input corticali, disinibisce un ben preciso programma motorio; un circuito indiretto lo focalizza, ottimizzandolo. Nella m. di Parkinson si ha la progressiva perdita di una sostanza molto importante, la dopamina, allocata nelle terminazioni che collegano la substantia nigra allo striato, e ciò provoca un cattivo funzionamento dei circuiti dei gangli della base. Ed ecco venirci in aiuto la metafora del portiere a cui abbiamo visto parare il rigore: la sua postura in flessione, il suo sguardo fisso e la sua faccia priva di mimica sono gli stessi atteggiamenti che possiamo notare in un malato parkinsoniano e che il neurologo clinico definisce camptocormia. È come se le anomalie circuitali dei gangli della base avessero attivato per errore un programma motorio, quello dell’attenzione somatizzata e dell’attesa vigile, lo stesso del portiere che si accinge a parare un rigore. La carenza di dopamina si traduce in un aumento della frequenza di scarica dei neuroni in uscita dal nucleo subtalamico e ciò è alla base nei parkinsoniani della perdita di movimenti automatici, e provoca rigidità, ridotta e lenta motilità, postura in flessione e tremore.

È interessante notare come al giorno d’oggi il fronte terapeutico contro la m. di Parkinson segue due vie. La prima è farmacologica, mediante il reintegro delle funzioni dopaminergiche. La seconda è legata all’intervento diretto sulle anomalie circuitali dei gangli della base, attraverso l’impianto di elettrodi cerebrali a permanenza, collegati a uno stimolatore che interferisce sulla frequenza di scarica in uscita dal nucleo subtalamico, con risultati spesso sorprendenti.

(Aldo Nocchiero)