Print Friendly, PDF & Email

Il concetto di coscienza iniziò ad affacciarsi nel dibattito filosofico con Kant, che operò un’autentica rivoluzione copernicana nell’ambito gnoseologico, ponendo al centro della conoscenza non le cose ma l’uomo. Come fu chiaro che era la terra, insieme ai pianeti, a ruotare attorno al sole – e non il contrario -, così iniziò a farsi strada la nozione di centralità dell’uomo nella sfera dello scibile. Secondo il pensatore tedesco, il mondo esterno di per sé non è conoscibile se si ricorre unicamente ai sensi, ma lo diventa se le esperienze sensoriali sono ricondotte al vaglio delle categorie mentali innate che sono proprie dell’uomo. A Kant non interessa come percepisca la realtà una formica, un pesce, una rana o un altro essere vivente, ma oggetto della sua indagine è l’uomo, che possiede – come tutti i suoi simili – gli stessi schemi mentali, appunto le medesime categorie, che danno forma al flusso di dati provenienti dai sensi. È nella mente umana – e non fuori da essa -, a partire dalle esperienze sensoriali e tramite queste strutture innate, che si realizza una conoscenza vera e non ingannevole. Contrapposta alla realtà esterna, di per sé non comprensibile (noumeno), è l’esperienza della conoscenza e, di conseguenza, la coscienza che si realizza nel territorio della mente (fenomeno). Ed ecco sorgere un concetto molto importante, quello di coscienza, che più tardivamente verrà sviscerato da un altro filosofo tedesco, Edmund Husserl.

La coscienza rappresenta tutto ciò che concerne il campo dell’esperienza dell’uomo, le informazioni dal mondo esterno tramite i sensi, la loro categorizzazione in una dimensione spazio-temporale, che stabilisce un prima e un poi, un vicino e un lontano, la consapevolezza soggettiva di appartenenza dei propri pensieri. Ed è proprio l’ “io penso” una delle categorie mentali innate che Kant pone alla base della conoscenza, come pure la categoria dello “spazio” e del “tempo”.

Cosa ci succede se questi meccanismi mentali, queste categorie, non funzionano correttamente? Rientrano nei vissuti di tutti noi quei momenti di transizione dal sonno alla veglia, o viceversa, in cui gli oggetti della stanza ci appaiono distorti o ci sembrano assumere forme diverse, ovvero momenti in cui non riusciamo a collocare certi eventi nella giusta sequenza temporale; stanchi, guidando di notte per lunghe ore, la segnaletica stradale avrà assunto le sembianze di un uomo sul ciglio della strada, una stazione di servizio illuminata l’aspetto di un lunapark. Sono tutti esempi di coscienza alterata, per quanto si tratti di fenomeni fisiologici e non patologici. La nostra mente, in queste situazioni, non è in grado di ordinare i dati esperienziali secondo le categorie kantiane dell’ “io penso” e dello “spazio-tempo”, per cui ne consegue un disturbo della coscienza, ossia una condizione che definiremo confusione mentale, in cui la percezione del mondo esterno è alterata perché soprattutto lo è la consapevolezza di noi, quel meccanismo che dà ordine al corso dei nostri pensieri.

Sono molteplici le patologie neurologiche e psichiatriche la cui fenomenologia è spiegabile con il meccanismo della confusione mentale. Lo è l’ebbrezza alcolica, lo è la condizione psichica da uso di sostanze allucinogene (LSD, cannabinoidi, ad es.), lo sono le encefalopatie conseguenti a prolungati stati infettivi, a disturbi idroelettrolitici, ad alterazioni del funzionamento dei reni, del fegato e del pancreas, le encefalopatie dovute a sostanze tossiche e all’assunzione di alcuni farmaci. Il DSM (il manuale diagnostico e statistico delle malattie mentali) definisce la confusione mentale come Delirium, da non confondere con i deliri delle psicosi schizofreniche e paranoidee, che invece si verificano a coscienza integra e non confusa. Nel Delirium Tremens, dovuto ad astinenza alcolica, il paziente sperimenta una condizione oniroide, in cui i vissuti della sua coscienza alterata sono popolati da allucinazioni visive, spesso costituite da insetti o da animali di grossa taglia (allucinazioni microzooptiche e macrozooptiche). Le crisi epilettiche del lobo temporale, d’altra parte, rappresentano un autentico modello fenomenologico di graduale destrutturazione della coscienza. La scarica elettrica focale, originata nelle strutture interne del lobo temporale, determina, con il suo allargarsi alle aree cerebrali vicine, una progressione della sintomatologia; il paziente riferisce all’improvviso la sensazione di aver già vissuto la scena che colpisce la sua attenzione (deja-vu), poi la descrizione dei suoi vissuti si fa sempre più imprecisa e frammentata finché non è in grado di ricordare più nulla, anche se la crisi era perdurata ancora per diversi minuti; a causa dell’alterazione della coscienza, il paziente, nel corso o subito dopo una crisi epilettica focale, può compiere gesti o azioni complesse di cui non ha critica o controllo, sollevando talora, nel caso di  atti delittuosi, questioni medico-legali di non facile soluzione.

Il problema dell’alterazione della coscienza non riguarda solamente il neurologo, ma anche lo psichiatra, qualora questi voglia usare un approccio al paziente prettamente clinico e fenomenologico. Fu uno psichiatra francese del secolo scorso, Henri Ey, che teorizzò di una progressiva compromissione della coscienza nelle psicosi, di quadro clinico in quadro clinico, fino ad arrivare, in modo più eclatante, alla bouffée delirante.

Dott. Aldo Nocchiero

Nessun articolo correlato