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Nei pazienti affetti da COVID-19 la disfunzione renale, identificata da una ridotta velocità di filtrazione glomerulare al momento del ricovero, è predittiva di outcome sfavorevole.  Questi pazienti, che hanno un maggior rischio di ingresso in terapia intensiva e di morte, vanno monitorati con maggiore attenzione e a loro vanno rivolte cure più “aggressive” sin dall’inizio.
Sono questi i risultati di uno studio eseguito dai medici internisti e nefrologi dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza che hanno preso in esame le cartelle cliniche di 254 pazienti, ricoverati per malattia da COVID-19 nell’Ospedale di San Giovanni Rotondo da marzo a maggio del 2020, durante la prima ondata pandemica.
La velocità di filtrazione glomerulare è uno dei metodi utilizzati per classificare gli stadi dell’insufficienza renale e, secondo i ricercatori di San Giovanni Rotondo, rappresenta un valore da tenere in grande considerazione nell’insorgenza di malattia da COVID-19. 
«Il nostro studio – spiega Antonio Mirijello, medico e ricercatore dell’Unità di Medicina Interna dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza – non era rivolto a valutare la malattia renale, bensì il GFR, come biomarcatore di gravità per il COVID, svincolandolo dalla natura acuta o cronica della malattia renale. Ciò che abbiamo scelto di fare è proprio valutare la capacità del GFR numerico o categorico nel predire l’evoluzione della malattia nei pazienti COVID. È evidente che, se consideriamo il rene come un filtro, il GFR può essere ridotto sia in caso di malfunzionamento del filtro, come nel caso delle malattie renali, sia di un deterioramento del condotto dove scorre il sangue, come nei casi di aterosclerosi. Abbiamo scelto di valutare un parametro aspecifico: non ti dice perché il rene non filtra, ma ti dice solo e sicuramente che non filtra e non depura». 
Studiando le cartelle cliniche dei pazienti che hanno dato il consenso alla raccolta anonimizzata dei loro dati clinici, i ricercatori del gruppo CSS COVID19 di San Giovanni Rotondo hanno confermato alcuni studi precedenti che hanno dimostrato l’effetto deleterio della malattia renale nei pazienti con infezione da SARS-COV-2. 
«Abbiamo scelto di approfondire l’argomento poiché in letteratura erano presenti dati discordanti sul legame tra bassi valori di GFR e decorso della malattia – sottolinea ancora Mirijello –. I nostri dati hanno confermato gli studi sulla malattia renale come predittiva di ‘outcome’ sfavorevole e, espandendo queste informazioni in un setting diverso di pratica clinica quotidiana, abbiamo evidenziato un significativo incremento del 64% del rischio relativo di morte o di accesso in terapia intensiva nei pazienti con basso GFR indipendentemente dalla causa».
Lo studio – al quale hanno partecipato i medici internisti Antonio Mirijello, Pamela Piscitelli, Angela de Matthaeis, Michele Inglese e Salvatore De Cosmo, i nefrologi Michele Antonio Prencipe e Filippo Aucella, i neurologi Lucia Florio e Maurizio Leone – è stato pubblicato sulla rivista specializzata Journal of Clinical Medicine e contiene preziose raccomandazioni sia per i pazienti che per i medici di area COVID.  
«Da questa ricerca possiamo trarre 2 indicazioni molto chiare – spiega Salvatore De Cosmo, direttore dell’Unità di Medicina Interna dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza e coordinatore dello studio –. La prima è che, come stanno già facendo le società scientifiche di Nefrologia, i pazienti affetti da malattia renale devono essere messi a conoscenza del rischio che potrebbero correre contraendo l’infezione da SARS-COV-2, e di conseguenza dovrebbero essere molto attenti nell’evitare l’infezione, ad esempio vaccinandosi al più presto se non l’hanno ancora fatto. La seconda indicazione è per i medici di area COVID-19: un basso valore di GFR al momento del ricovero in Ospedale è un campanello d’allarme da non trascurare. Questi pazienti devono essere considerati ad alto rischio di deterioramento clinico e di morte, e pertanto trattati con terapie aggressive».