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In un momento di grande emergenza dovuta alla pandemia COVID-19 è giusto ricordare la giornata mondiale del Parkinson, che si terrà in tutto il mondo sabato 11 aprile. In modo particolare, ricorderà a tutti cosa significhi essere affetti da una malattia neurodegenerativa, che priva le persone della capacità di movimento, le costringe tra le mura domestiche per la maggior parte del tempo, rinunciando alla attività fisica, ricreativa e riabilitativa, nelle palestre o tra amici, frequentando solo le attività motorie proposte dalle Associazioni di pazienti.

Si stima che la malattia di Parkinson colpisca in Italia circa 300.000 persone, in prevalenza uomini, mentre in Europa si contano più di 1,2 milioni di pazienti. Le previsioni indicano che nel 2030 la malattia di Parkinson riguarderà circa il 25% degli “over 65”.

La percezione è che questa problematica riguardi solo le persone anziane, ma non è così: 1 paziente parkinsoniano su 4 ha meno di 50 anni e il 10% meno di 40. Ci si chiede inoltre se, davvero, oggi si possa ritenere anziana una persona di 65 anni.

La patologia è generata dalla progressiva morte dei neuroni collocati nella sostanza nera, una piccola zona del cervello che, attraverso la dopamina, controlla i movimenti di tutto il corpo. La perdita di queste cellule, nella misura del 60%, genera la malattia, che di solito si manifesta con sintomi quali tremori involontari di alcune parti del corpo, rigidità muscolare che impedisce molti movimenti, bradicinesia, ovvero il rallentamento progressivo delle attività motorie, acinesia, la difficoltà ad iniziare un movimento, instabilità posturale con perdita dell’equilibrio, congelamento dell’andatura, una situazione caratterizzata da fenomeni improvvisi e transitori in cui il paziente è incapace di iniziare o proseguire qualsiasi movimento.

Il Parkinson fa parte di un gruppo di patologie definite “Disordini del Movimento” ed è la quarta più comune patologia neurologica dopo l’emicrania, l’ictus e l’epilessia. Ai sintomi tipici del Parkinson se ne possono associare alcuni, non sempre identificati, quali postura curva, voce flebile, difficoltà di deglutizione, oppure altri ancora non di origine motoria.

Ad oggi, sebbene non esista una cura definitiva per questa patologia, la ricerca e la scienza medica hanno fatto passi importanti e messo a punto soluzioni terapeutiche molto innovative, al fine di migliorare isintomi di questa malattia: monitoraggio costante, trattamenti farmacologici, interventi chirurgici, supporto psico-sociale, esercizio fisico, dieta bilanciata possono aiutare in misura significativa i pazienti a convivere con il Parkinson, preservando autonomia e una buona qualità di vita.

Le terapie utilizzate nella fase iniziale sono farmacologiche e prevedono farmaci combinati fra loro per controllare o migliorare i sintomi motori, anche per lungo tempo. Il farmaco maggiormente utilizzato è la levodopa, il precursore della dopamina, sostanza che determina un sensibile miglioramento della sintomatologia e della qualità di vita per molti anni, fino alla comparsa di severe fluttuazioni motorie, discinesie e distonie a volte dolorose. Con le medesime finalità vengono impiegati in associazione anche altri farmaci dopaminergici come i dopamino-agonisti, gli inibitori delle mono-amino-ossidasi e delle catecol-metil-transferasi.

È, però, soprattutto nell’ambito della neurochirurgia funzionale che la scienza medica ha registrato i risultati più significativi. Questa branca della chirurgia si propone di identificare un centro nervoso nel cervello responsabile dei sintomi del Parkinson e di colpirlo con strumenti capaci di modificarne l’attività e modularne il funzionamento. Questo target è un centro nervoso “sano”, ma responsabile dei sintomi parkinsoniani per effetto della neuro-degenerazione della sostanza nera. In genere, la stimolazione riguarda il nucleo subtalamico o, in alternativa, il nucleo pallido interno. La stimolazione elettrica è in grado di ristabilire una normale comunicazione tra questi nuclei e la corteccia cerebrale e, quindi, risolvere o migliorare i sintomi motori della malattia, come le complicanze motorie, discinesie e fasi OFF, indotte negli anni dalla levodopa.

La Stimolazione Cerebrale Profonda è, quindi, la procedura chirurgica più avanzata oggi disponibile, per ridurre i sintomi parkinsoniani e migliorare, al contempo, la qualità di vita dei pazienti. Naturalmente, questa procedura deve essere proposta ai giusti candidati e al momento opportuno, non troppo tardivamente, della storia naturale della malattia.

Fra i sistemi maggiormente utilizzati va segnalato il Sistema Direzionale Boston Scientific, caratterizzato dal neurostimolatore Vercise Gevia e da un sottile catetere che seleziona in modo accurato il punto cui indirizzare la corrente di stimolazione, potendo orientare il campo elettrico. Il primo impianto Vercise Gevia è stato effettuato nel 2017 presso il reparto di Neurochirurgia Funzionale dell’’Ospedale Galeazzi di Milano, su una paziente del Centro Parkinson dell’Istituto Neurologico Fondazione “C. Mondino” di Pavia. Di recente, la ricerca ha introdotto un sistema di visualizzazione dell’elettrodot, Guide XT. Questo programma, unendo le immagini cerebrali acquisite prima della DBS a quelle successive, permette la ricostruzione della posizione effettiva dell’elettrodo e consente al neurologo-programmatore di migliorare l’ efficacia dei sistemi di stimolazione. In sintesi, la stimolazione è più precisa ed accurata e gli effetti collaterali si riducono.

Va ricordato che i dispositivi di neurostimolazione prevedono batterie tradizionali ad esaurimento, con durata indicativa di 5 anni, oppure batterie ricaricabili che hanno una previsione di durata fino a 25 anni. Queste ultime vengono ricaricate direttamente dal paziente, attraverso una fascia appoggiata. La longevità dei dispositivi ricaricabili rappresenta un indiscusso vantaggio per i pazienti, che per molti anni non devono affrontare interventi di sostituzione del dispositivo, con conseguente contenimento dei costi.

Le statistiche evidenziano miglioramenti dei sintomi già pochi giorni dopo l’intervento di DBS, che consente anche di ridurre le dosi di farmaci dopaminergici dal 50 all’80%.

Lo testimoniano tante storie di pazienti, come il gruppo di Parkinsoniani che nel mese di luglio ha compiuto a nuoto la traversata dello stretto di Messina.