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Un consorzio internazionale di ricercatori, coordinati dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases, dalla Rockefeller University e dalla Università di Parigi, ha descritto il ruolo essenziale degli interferoni nella corretta risposta immunitaria alla malattia: soggetti che presentano anticorpi che neutralizzano tali molecole o difetti genetici che ne condizionano l’espressione tendono a sviluppare forme particolarmente gravi di malattia. I risultati contribuiscono anche a spiegare la ragione per cui i soggetti di età più avanzata sono più suscettibili alle forme più severe di COVID-19.

I risultati dello studio, pubblicati su due lavori apparsi sulla prestigiosa rivista “Science Immunology”, potranno avere importanti ricadute anche nella gestione clinica della malattia.

L’Università di Milano-Bicocca, in sinergia con l’ASST di Monza, ha contribuito in modo sostanziale a questi importanti risultati contribuendo con il progetto “STORM, Studio osservazionale sulla storia naturale dei pazienti ospedalizzati per Sars-Cov-2”, un archivio elettronico di dati clinici, diagnostici e terapeutici relativi ai pazienti COVID-19 ricoverati presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, coordinato da Paolo Bonfanti, professore di Malattie infettive di Milano-Bicocca e implementato dall’ufficio Bicocca Clinical Research Office. Per la ricerca pubblicata su “Science Immunology”, in particolare, è stato fondamentale l’apporto della raccolta del materiale biologico residuo derivante da tamponi e prelievi dei pazienti, coordinata su iniziativa di Andrea Biondi, professore di Pediatria di Milano-Bicocca.

«Questi studi sono la prosecuzione di un progetto di ricerca internazionale iniziato fin dai primi mesi della pandemia – affermano Paolo Bonfanti e Andrea Biondi – volto a studiare le cause alla base dell’estrema multiformità della malattia, che può manifestarsi con uno spettro che varia dall’infezione asintomatica alla morte rapida. Da tempo le ricerche si sono concentrate sulle cause genetiche di tali diversità ed in particolare sul ruolo di alcune proteine prodotte dalle cellule del sistema immunitario, come gli interferoni, che condizionano la risposta favorevole a Covid-19».

Negli studi pubblicati su Science immunology gli autoanticorpi che neutralizzano gli interferoni di tipo I aumentano di prevalenza oltre i 60 anni di età e sono alla base di circa il 20% di tutti i casi fatali di COVID-19. Il dato molto importante che emerge dalla ricerca è che la presenza di autoanticorpi precede l’insorgenza di Covid-19.

«Questi risultati – concludono Bonfanti e Biondi – potrebbero avere implicazioni terapeutiche molto importanti: anzitutto la ricerca degli anticorpi anti-inteferone potrebbe divenire un test di screening vista la discreta frequenza di questi autoanticorpi nella popolazione generale con il progredire dell’età. In secondo luogo, i pazienti con autoanticorpi contro l’interferone di tipo I dovrebbero essere vaccinati contro COVID-19 prioritariamente. Ed infine, in caso di infezione da SARS-CoV-2, le persone non ancora vaccinate in cui fosse rilevata la presenza di questi autoanticorpi, dovrebbero essere ricoverate in ospedale per una corretta gestione clinica. Il trattamento precoce con anticorpi monoclonali potrebbe essere somministrato in questi pazienti prima che compaiono sintomi di polmonite da COVID-19”.