Il 30% delle donne malate di cancro è affetta da un tipo di tumore al seno, particolarmente frequente dopo la menopausa, indotto da un’eccessiva concentrazione di estrogeni, gli ormoni sessuali femminili. Questi vengono prodotti dall’enzima aromatasi e si legano, attivandola, a una particolare proteina, il recettore agli estrogeni, che a sua volta è responsabile della proliferazione cellulare alla base della malattia. Approcci terapeutici classici prevedono quindi di inibire l’enzima aromatasi al fine di interrompere la produzione di estrogeni o di bloccare l’azione di quest’ultimi impedendogli di legarsi al recettore ERα. In questo modo ERα rimane inattivo e non può svolgere la sua funzione di trasmissione del segnale di crescita e riproduzione cellulare. Questi metodi, sebbene abbiano consentito dei grandi passi avanti nella cura dei tumori al seno, manifestano alcuni limiti rispetto ai quali una ricerca condotta dall’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche e finanziata dall’Airc apre interessanti prospettive. Il lavoro, che ha coinvolto anche Università di Trieste e Istituto nazionale dei tumori di Milano, è pubblicato su “European Journal of Medicinal Chemistry”.

“Il problema più diffuso delle terapie finora in uso è che in seguito a trattamenti prolungati si possono sviluppare dei fenomeni di resistenza che rendono ERα attivo, quindi in grado di stimolare costantemente la crescita cellulare, anche in assenza di estrogeni”, spiega Alessandra Magistrato del Cnr-Iom, responsabile scientifico e coordinatore della ricerca. “Inoltre l’eliminazione completa degli estrogeni non è mai un bene e può condurre a effetti collaterali, tra cui l’insorgere dell’osteoporosi”.

La soluzione proposta dalla ricerca è quella di inibire solo parzialmente l’enzima aromatasi, in modo da non impedirgli del tutto di produrre estrogeni, ma solo di rallentarne il processo. “L’enzima ha una tasca che si chiama ‘sito attivo’ dove avviene la formazione degli estrogeni. Nelle terapie convenzionali l’inibitore va ad occupare proprio il sito attivo impedendone del tutto la reazione di sintesi. Noi abbiamo identificato un altro sito che si chiama ‘allosterico’, che può essere occupato dall’inibitore in modo da diminuire, ma non bloccare completamente, la produzione di estrogeni”, prosegue Angelo Spinello del Cnr-Iom, primo autore della pubblicazione.

I ricercatori Cnr-Iom hanno cercato dunque di identificare quali molecole sono capaci di legarsi al sito allosterico, inducendo e sfruttando un nuovo meccanismo di inibizione. Attraverso una serie di esperimenti virtuali hanno elaborato delle predizioni su alcune classi di molecole, poi verificate nei laboratori dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. In seguito l’Università di Trieste ha caratterizzato lo specifico tipo di inibizione che quelle molecole inducevano, confermando le predizioni. “Questa ricerca ha quindi mostrato la possibilità di sintetizzare potenziali nuovi farmaci che permettono di tenere sotto controllo la produzione di estrogeni e quindi la proliferazione delle cellule tumorali, ostacolando o rallentando l’insorgere di fenomeni di resistenza e gli effetti collaterali derivanti dalle terapie attualmente in uso clinico”, conclude Magistrato. “Ulteriori indagini in questo senso riguarderanno lo studio e il miglioramento delle caratteristiche chimico fisiche delle molecole identificate, per aumentare l’efficacia e rilevare la capacità di penetrazione nei tessuti biologici, prima di valutare i loro effetti in vivo. Questo sarà il processo preliminare per un possibile ingresso di questo tipo di approccio nei trial clinici”.