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Un gruppo di ricerca dell’Università di Bologna, guidato dal professor Aldo Roda, in collaborazione con il gruppo della professoressa Laura Anfossi dell’Università di Torino, ha messo a punto un nuovo biosensore portatile in grado di rivelare gli anticorpi IgA prodotti in seguito ad infezione da SARS-CoV-2, il coronavirus che causa la COVID-19.
Presentato in un articolo sulla rivista “Biosensors and Bioelectronics”, il test permette di riconoscere in pochi minuti, sia nella saliva che nel siero, la presenza di IgA specifiche per SARS-CoV-2, una classe di immunoglobuline che viene prodotta dal nostro sistema immunitario come prima risposta ad una minaccia esterna. Si tratta del primo test rapido di questo tipo, e le sue particolari caratteristiche aprono nuove prospettive sia per la diagnosi non invasiva precoce dell’infezione da coronavirus che per la valutazione dell’efficacia dei vaccini attualmente in fase di sperimentazione.
Il nuovo biosensore messo a punto dagli studiosi è rapido ed economico, pur mantenendo un’elevata capacità di rilevazione del coronavirus. Utilizza un semplice supporto cartaceo e un lettore che può essere integrato con la fotocamera di uno smartphone o una semplice fotocamera digitale con sensore di tipo CCD. È basato sulla LFIA, una tecnica ampiamente nota in campo diagnostico (la stessa usata, ad esempio, nei test di gravidanza), e sull’utilizzo di marcatori chemiluminescenti o di nanoparticelle d’oro per far emergere la presenza degli anticorpi. I pazienti possono raccogliere in autonomia il campione di saliva necessario, riducendo così i costi e il rischio di contagio per gli operatori sanitari. E il test può essere fatto senza problemi anche sui bambini e sulle persone anziane.
“I risultati che abbiamo ottenuto aprono notevoli opportunità per la realizzazione, in sinergia con la ricerca industriale e farmaceutica, di un test fruibile a tutta la popolazione”, spiega il professor Roda. “Sono attualmente in programmazione studi più estensivi per la validazione chimico-analitica e clinica del biosensore, al fine di renderlo robusto ed idoneo per un utilizzo immediato”.

I test sierologici oggi impiegati per rilevare infezioni da coronavirus SARS-CoV-2 si basano sull’individuazione, nel siero del sangue, di altri due tipi di immunoglobuline: le IgM – che sono transitorie e la cui presenza è associabile quindi ad un’infezione recente – e le IgG – che compaiono a una settimana dall’infezione e permangono anche quando il virus non è più rivelabile nell’organismo.
Le immunoglobuline della classe IgA, su cui si concentra il nuovo test, sono invece i primi anticorpi prodotti in risposta ad un’infezione virale. Sono secrete sulla superficie della mucosa oro-faringea, che ricopre la gola, e possono quindi essere misurate nella saliva. Inoltre, vengono prodotte in quantità maggiore rispetto alle IgM. “Le immunoglobuline IgA sono la prima linea di difesa contro le infezioni virali e batteriche delle vie respiratorie”, dice Roda. “Si tratta di anticorpi che operano per inibire l’attacco dei microrganismi all’epitelio sottostante e sono anche in grado di agglutinare gli antigeni, intrappolandoli nello strato mucoso e facilitandone così l’espulsione”.
Assieme alla diagnosi precoce dell’infezione da SARS-CoV-2, uno dei possibili campi di utilizzo del test è anche il controllo dell’efficacia dei vaccini che saranno realizzati. “Viste le scarse conoscenze sull’immunopatogenesi del coronavirus e la mancanza di dati sull’efficacia dei vaccini in fase di realizzazione, nel futuro prossimo il dosaggio delle IgA specifiche anti-SARS-CoV-2 sarà di fondamentale importanza”, dice ancora Roda. “L’utilizzo di questo test potrebbe quindi consentire di verificare l’induzione della risposta immunitaria locale, a livello del tratto naso-faringeo, e quindi di protezione nei confronti dell’infezione”.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista “Biosensors and Bioelectronics” con il titolo “Dual lateral flow optical/chemiluminescence immunosensors for the rapid detection of salivary and serum IgA in patients with COVID-19 disease”. Il risultato nasce dalla collaborazione tra ricercatori dell’Università di Bologna, dell’Università di Torino e del Consorzio Interuniversitario “Istituto Nazionale Biostrutture e Biosistemi”.