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Tumore al polmone: un farmaco allunga la sopravvivenza e migliora il benessere dei pazienti

L’IRCCS Policlinico Sant’Orsola ha partecipato ad uno studio multicentrico che cambia la pratica clinica nelle fasi avanzate di una specifica forma di carcinoma polmonare. I risultati pubblicati sul “New England Journal of Medicine”.

La ricerca si è concentrata in particolare sul carcinoma polmonare non a piccole cellule RET positivo, neoplasia che rappresenta circa l’1/2% delle 40mila diagnosi di tumore al polmone formulate mediamente ogni anno in Italia. “Si tratta di un carcinoma che dipende dall’alterazione del gene RET – spiega il professor Andrea Ardizzoni, direttore dell’Oncologia Medica dell’IRCCS – I pazienti che ricevono questa diagnosi sono generalmente più giovani rispetto all’età media delle altre neoplasie polmonari, quasi sempre non fumatori e in maggioranza donne”.

Nelle fasi più avanzate il tumore dà origine a metastasi che interessano in particolare il sistema nervoso centrale. Quando la malattia raggiunge questo stadio, il paziente viene giudicato non operabile e si procede con sedute di chemio e immunoterapia. Solo in un secondo momento, come terapia di salvataggio successiva a questi trattamenti convenzionali, si somministra un inibitore selettivo della proteina anomala prodotta dal gene mutato

O meglio: quella appena descritta era la pratica clinica adottata fino ad oggi. Una pratica che, con tutta probabilità, è destinata a cambiare a breve alla luce dei risultati prodotti dallo studio multicentrico profit pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica “New England Journal of Medicine”

La ricerca, racconta sempre Ardizzoni, è partita da una semplice domanda: “Come terapia di salvataggio l’inibitore è talmente efficace che ci siamo chiesti: perché non utilizzarlo come trattamento di prima scelta, al posto della chemio-immunoterapia?”

L’inibitore selettivo orale di RETR Selpercatinib è stato così messo a confronto con la terapia convenzionale hanno arruolato oltre 200 pazienti affetti da carcinoma polmonare in fase avanzata – il Policlinico di Sant’Orsola ne ha arruolati 9, divenendo uno dei top recruiter a livello europeo. E i risultati, presentati anche al recente convegno dell’European Society of Medical Oncology, hanno confermato l’efficacia dell’inibitore.

“Circa l’80% dei pazienti ha risposto positivamente al trattamento, registrando una riduzione dimensionale del tumore – spiega Ardizzoni – Si tratta non solo di una % di risposta più elevata rispetto alla chemio-immunoterapia ma anche di risposte di entità e durata maggiore: circa due anni di beneficio, contro l’anno scarso della terapia convenzionale”. Inoltre, i pazienti trattati con l’inibitore presentano un rischio ridotto di sviluppare metastasi al cervello.

Sia chiaro: non si tratta di una cura definitiva. “Il trattamento viene utilizzato quando il tumore è già metastatizzato: consente di ridurne le dimensioni, a volte fino a farlo scomparire, ma non permette di guarire – aggiunge il professore – Dopo qualche anno la malattia, purtroppo, diventa resistente alla terapia, è il limite di questi farmaci a bersaglio molecolare. L’inibitore consente però di allungare il tempo di vita e di migliorare il benessere del paziente, allontanando la comparsa di nuovi sintomi”.

“Grazie alla migliore caratterizzazione dei tumori possiamo identificare le terapie più efficaci per ogni sottogruppo neoplastico”. O, detta in altri termini: “Se troviamo il bersaglio, ed è un bersaglio per cui abbiamo a disposizione i proiettili giusti, i risultati si vedono”.

Oltre al professor Ardizzoni, alla ricerca hanno lavorato anche Francesco Gelsomino, Stefania Salvagni e più in generale tutta l’équipe dell’Oncologia Medica. Studi come questo sono infatti “molto impegnativi sia da un punto di vista clinico che burocratico. Richiedono giustamente controlli molto ravvicinati e dettagliati e un gran lavoro in termini di trasferimento dei dati ad un database centralizzato. Se partecipiamo a questi studi così complessi ed onerosi, è soprattutto perché ci forniscono la possibilità di offrire ai nostri pazienti un’opportunità terapeutica che altrimenti non avrebbero avuto e per contribuire al progresso della ricerca scientifica”.

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