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Chimica computazionale e intelligenza artificiale potranno far risparmiare tempo e risorse nell’individuare le cause di disturbi al sistema nervoso. Lo testimonia una ricerca, appena pubblicata sulla prestigiosa rivista Scientific Reports, che propone uno ‘screening’ computazionale per identificare quali mutazioni di una determinata proteina possano essere all’origine della patologia.

La proteina in questione si chiama NaV1.7 ed è nota ai neuroscienziati come uno dei canali di comunicazione fondamentali tra sistema periferico e centrale: regola il ‘volume’ del dolore che arriva al cervello. Alcune mutazioni possono far sì che la persona non avverta dolore, esponendola a rischi. Altre possono abbassare la soglia e far percepire dolore immotivato. 

Un team internazionale e multidisciplinare coordinato dall’informatica Marta Simeoni e dal fisico Achille Giacometti dell’Università Ca’ Foscari Venezia, ha sviluppato e sperimentato per la prima volta un metodo per cercare di predire quali mutazioni meritano approfondimenti diagnostici, distinguendole da varianti genetiche della proteina che non ne alterano il funzionamento.

Si tratta del primo passo verso un metodo avanzato che permetterà di concentrare il ricorso alle analisi elettrofisiologiche, che richiedono molte risorse e molti mesi di lavoro, ai casi più meritevoli di approfondimenti.

Per compierlo, hanno applicato tecniche di chimica computazionale e machine learning su una serie di 85 mutazioni di NaV1.7 fornite dall’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano. Tali tecniche hanno permesso di riconoscere pattern strutturali associati all’insorgenza di neuropatie dolorose, prefigurando quindi la possibilità di sviluppare farmaci sempre più specifici e con meno effetti collaterali.

Tra i maggiori ostacoli nello sviluppare dei farmaci vi è l’incapacità attuale di produrne di specifici per questa proteina: nel corpo umano sono state scoperte altre otto proteine omologhe alla Nav1.7. Tutte controllano il passaggio degli ioni del sodio attraverso la membrana in risposta a variazioni di potenziale, ma sono codificate da nove geni diversi all’interno del nostro DNA.

Essendo tra di loro omologhe, condividono anche un’elevatissima similitudine strutturale, e questo rende estremamente difficile sviluppare farmaci in grado di risultare specifici per una sola di queste proteine non alterando la funzionalità delle altre omologhe che lavorano correttamente. 

“Pensiamo che la pipeline computazionale che abbiamo adottato possa diventare una metodologia applicabile anche ad altre proteine – spiega Marta Simeoni – ma questo va verificato e c’è quindi ancora molto lavoro da fare”.

“Intendiamo proseguire su questa strada implementando un vero e proprio Digital Health Lab”, aggiunge Achille Giacometti, che a Venezia dirige il centro internazionale European Centre for Living Technology.

Alla ricerca hanno collaborato anche due studenti di Ca’ Foscari, Alberto Toffano e Giacomo Chiarot, che hanno avuto l’opportunità di partecipare alla ricerca al fianco di scienziati del centro ECLT, dell’Istituto Besta, dell’Università di Maastricht e dell’Università di Yale.

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