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La Divina Commedia del sommo poeta accenna ad alcune malattie che noi vorremmo brevemente illustrare per far conoscere come si presentavano a quel tempo e come venivano curate. Parliamo del 1300 in pieno Medio Evo. Pare che Dante, membro della corporazione dei medici e degli speziali, fosse interessato sia all’arte medica che all’arte dell’alchimia, che permetteva la cura delle malattie dell’epoca. Già nell’Inferno, VII canto, Dante accenna alla quartana, malattia che, improvvisamente, colpiva il malato che avvertiva il brivido della febbre ogni 4 giorni e lo rendeva inattivo e che passava alcune ore dopo intensa sudorazione. Notizie si trovano nei libri di Ippocrate, confuse con altri processi morbosi.

Anche Lucrezio e Varrone avevano intraveduto l’influenza di agenti invisibili nella sua insorgenza. Caratterizzata da una serie di accessi febbrili, che si ripetevano per lo più con regolarità, e da altri sintomi più o meno gravi, che comparivano nelle forme croniche, insorgeva rapidamente con tremito e solo nell’800, con la scoperta della zanzara trasmettitrice della malattia fu chiamata malaria.

Molto diffusa in Basilicata era conosciuta dai romani, che ne avevano capito l’eziologia parassitaria. Alla febbre ricorrente attribuivano anche una genesi divina. La chiamavano febres frigidae a causa dei brividi frigus. Plinio, Svetonio, Aulo Gellio ne descrivono molto bene i diversi tipi, chiamati febbre ricorrente quotidiana, terzana e quartana. Pozioni di erbe erano somministrate: «Prendete le foglie della cerquola, fatene decotto alla sera, lasciate il liquido fuori della finestra al sereno e somministratelo a digiuno al malato». Alla prima manifestazione della febbre è utile un vomitivo, foglie di loriola -erba laurella-olivella o il succo di latiri – cocomero asinino. Se la febbre continuava, somministrare clisteri. Successivamente quando fu scoperta l’origine della malattia erano utilizzati anche vini medicinali: vino tonico alla china, vini eccitanti.

Nel XXIV Canto dell’Inferno Dante parla di epilessia, con agitazione di mani e piedi e spuma che esce dalla bocca. Era chiamata anche sacra passio. Numerosi autori la descrivono e Ruggero consiglia di somministrare al malato una purga e poi cuore di lupo e sangue di lepre tostato. Dopo rasatura dei capelli si praticherà una cauterizzazione al centro della testa.

Nel XXV Canto si accenna ai noti effetti prodotti dal morso velenoso del serpente. Esso provocava una tumefazione nella zona interessata, l’azione emolitica del veleno si manifestava con trasudamento dal corpo e dalle narici di sangue emolizzato e dagli occhi lacrime di sangue. A quei tempi vi era un farmaco considerato miracoloso, che curava tutte le malattie, tra cui anche i morsi dei serpenti che erano mortali, che si chiamava “Teriaca” aveva una composizione complessa e segreta, che poche persone (monaci) conoscevano. Era anche in uso far bere mezzo bicchiere di succo di gambi di cavolo e l’altro mezzo veniva spalmato sulla parte della pelle interessata dalla puntura.

Nel XXVII Canto si parla della lebbra e della guarigione dei lebbrosi, ma non si descrive la terapia 1. La lebbra era denominata elephas ed il termine “lepra” fu usato la prima volta nella traduzione latina della Bibbia. Descritta la prima volta da Lucrezio, Plinio e Celso fu Areteo di Cappadocia che la descrisse nei particolari. Inizia

con chiazze e tubercoli pruriginosi, che poi si ulcerano e deturpano completamente la persona. Era curata con il brodo di serpenti. I primi tempi era permesso ai lebbrosi di restare fra la gente, portavano un campanello che suonava al loro muoversi. Con l’aggravarsi della malattia spesso essi erano condotti ed abbandonati in luoghi deserti e sulle montagne. Era sconosciuta in Italia.

Nel XXIX Canto le anime dei falsari vengono colpite da diverse ripugnanti malattie: scabbia, lebbra e rabbia. Da come si presentava all’epoca la scabbia, scoperta 2500 anni or sono, scabies, aveva differenti significati: rugosità, asperità. Il nome deriva dal latino “grattare”. Celso la identificò per primo, specie nei bambini. Si presentava con numerose rugosità rossastre della pelle, con pustole secche o

umide e molto prurito. Gli acari, piccoli parassiti, scavano dei cunicoli sotto la pelle, dove deponevano uova, che si schiudevano e producevano altri parassiti. Si curava con la somministrazione di aringhe bollite. Una pomata con zolfo e pece era utile per il loro trattamento.

La rabbia era causata da un morso di cane arrabbiato. Bisognava togliere il virus dalla ferita e cauterizzare. Il Talmud babilonese avverte, però, che nessuna terapia è utile contro la rabbia.

Nel XXX Canto dell’Inferno si parla di idropisia, una malattia che colpiva l’uomo ed era identificata come ascite ed edemi specie negli arti inferiori. Già CELSO aveva affermato che era una malattia di origine epatica e della milza, legata ad eccessivo consumo di bevande alcoliche. L’ascite veniva curata con una piccola cannula speciale, che veniva infissa nell’addome e che gradualmente asportava il liquido che ristagnava.

Nel XXX Canto dell’Inferno si parla anche di febbre acuta, che può essere intra-vasa dentro le vene del sangue, pericolosa perché legata ad una malattia ed extravasa, non pericolosa, perché legata ad alterazione temporanea del corpo. Questa distinzione è dovuta a Galeno ed Ippocrate, che vengono citati spesso da Dante nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso.

Pare che Dante soffrisse di epilessia, secondo altri di narcolessia, quest’ultima ipotizzata da Cesare Lombroso. Sindrome caratterizzata da attacchi ricorrenti di sonno normale, pochi o molti in un giorno, possono durare da minuti ad ore, con improvvisa perdita del tono muscolare. Dante fa anche riferimento con termini scientifici delle “Lupe”, al I Canto dell’Inferno, e dice: “che mi fa tremare le vene ed i polsi”, vale a dire provoca nell’individuo una tachicardia per spavento. L’evoluzione della medicina, dai primordi, può essere consultata nel volume pubblicato da A. Molfese. Agli altri oratori lasciamo spazio per ulteriori notizie più approfondite.

Dott. Antonio Molfese

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