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Porta la firma del professore Angiolo Gadducci, insieme alla ginecologa Stefania Cosio, una recentissima revisione scientifica degli studi sul carcinoma ovarico da cui emergono sia le criticità degli attuali programmi di screening sia le promettenti prospettive di ricerca emerse dall’analisi del DNA di derivazione tubarica presente nello striscio cervico-vaginale quale biomarcatore precoce di questa grave patologia femminile, il cui alto tasso di letalità è dovuto in gran parte alla diagnosi tardiva.

Il carcinoma ovarico in genere si manifesta nelle donne in post-menopausa fra i 50 e i 79 anni. La sua variante istologica più frequente è il carcinoma sieroso di alto grado che, purtroppo, e’ già al III-IV stadio al momento della diagnosi nell’80% delle pazienti. Lo stadio avanzato e il residuo di malattia post-intervento chirurgico sono i principali prognostici di sopravvivenza. Ecco perché è fondamentale una diagnosi precoce che superi i limiti degli attuali programmi di screening. La revisione firmata dai ginecologi pisani, che mira proprio a questo, analizza in maniera critica sia i trial basati sul dosaggio sierico del marcatore tumorale CA125 e dell’ecografia trans-vaginale e pelvica sia gli studi sulla valutazione combinata di più biomarcatori tumorali sierici, di auto-anticorpi sierici associati al tumore, del DNA tumorale circolante e dei microRNA sierici. Due ampi studi randomizzati non hanno dimostrato alcuna riduzione della mortalità per carcinoma ovarico nelle donne sottoposte a screening con CA125 sierico ed ecografia rispetto a quelle non sottoposte a screening, nonostante lo studio inglese avesse evidenziato nelle prime una tendenza a un’incidenza più alta di neoplasie in stadio iniziale e più bassa di neoplasie in stadio avanzato. Ma gli studi più interessanti sono quelli che – partendo dalla considerazione che la maggior parte dei carcinomi ovarici sierosi nascono dalla tuba, da un precursore denominato STIC e caratterizzato da mutazioni del gene p53 – hanno analizzato le varianti clonali di questo gene nel DNA purificato da PAP test allo scopo di identificare le fasi precoci del processo carcinogenetico. Alcuni autori hanno trovato mutazioni di p53 in campioni vaginali di donne con carcinoma ovarico con tube aperte ma non in quelli di donne con carcinoma ovarico con tube chiuse. Proprio nei giorni scorsi sono stati diffusi anche i risultati preliminari di uno studio italiano che ha evidenziato le stesse varianti clonali di p53 presenti nei tessuti tumorali nel DNA purificato dai PAP test nel 64.7% delle donne con carcinoma ovarico, mentre queste varianti non sono state mai trovate nei PAP test di donne sane. In alcuni casi queste varianti genetiche sono state identificate addirittura in strisci eseguiti mesi o anni prima della diagnosi clinica di carcinoma ovarico.
La conclusione della revisione e’ che la messa a punto di test di laboratorio di next-generation sequencing, sempre più sensibili e specifici per mutazioni di p53, potranno migliorare nettamente le capacità di screening del carcinoma ovarico rispetto a quanto possibile oggi con il CA125 sierico combinato con l’ecografia.