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Quattro strumenti in grado di tenere a bada la malattia di Parkinson e, di conseguenza, portare l’aspettativa – ma soprattutto la qualità – di vita di questi pazienti al livello dei loro pari età sani: sono la novità più interessante e promettente presentata durante il lancio dell’evento ‘Open Accelerator’, tenutosi presso la sede dell’azienda farmaceutica Zambon, a Bresso (Milano).
Gli apparecchi sono stati ideati dal dr. Lazzaro Di Biase, 32 anni, neurologo e dottorando dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, che ha appena creato una start-up – PD Innovations – proprio perrendere presto possibile un’efficace diagnosi precoce, il monitoraggio dell’evoluzione della patologia e la gestione del trattamento, sia orale che infusionale, in tempo reale e in base alle specifiche condizioni cliniche di ogni singolo paziente.
“Attualmente – spiega Di Biase – l’errore diagnostico sul Parkinson è del 30% in qualsiasi fase della malattia. Alcuni mesi fa avevamo realizzato un ‘orologio’ particolare, dotato di un algoritmo in grado di ridurre questa percentuale all’8%. Con il nuovo device confidiamo di riuscire a portare pressoché a zero questo margine d’errore”. Ecco anche perché la sua scoperta è stata premiata, lo scorso 12 dicembre, proprio da Zcube, che finanzierà la ricerca e lo sviluppo dei dispositivi con 25mila euro.
In effetti, il problema del Parkinson oggi è proprio la diagnosi precoce: di questa patologia non si guarisce, ma è possibile conviverci se viene diagnosticata precocemente e trattata farmacologicamente. Le terapie disponibili, infatti, sono efficaci nel migliorare i sintomi motori, soprattutto nelle prime fasi di malattia. Ma accanto al paziente parkinsoniano ‘doc’ è possibile trovare tante persone affette dal ‘tremore essenziale’ o daicosiddetti ‘parkinsonismi atipici’, molto difficili da distinguere nelle prime fasi anche se osservati da specialisti esperti. Di solito, quando si riesce a ‘inquadrare’ in modo certo la patologia sono trascorsi ormai diversi anni.
“Su questi casi noi vogliamo incidere con i nostri dispositivi – sottolinea Di Biase – anche perché in genere si può morire di Parkinson, ma il rischio di morte è legato spesso alle sue complicanze: l’impossibilità di muoversi che può produrre cadute e quindi rotture di femore, oppure allettamento, ulcere e polmoniti. Se, viceversa, diventasse possibile mantenere la mobilità lungo tutta la vita di un parkinsoniano, la sua aspettativa di vitapotrebbe raggiungere quella di una persona sana”.
Il Parkinson è, tra le patologie neurologiche, quella con le terapie attualmente più efficaci, anche se non ci sono cure vere e proprie per bloccare o rallentare lo sviluppo della malattia. “Il nostro algoritmo – spiega ancora di Biase – sarà in grado di analizzare il movimento globale del paziente, tutto in modo mininvasivo: basteranno i sensori presenti in un normale smartphone”. Una novità che, dunque, potrà essere utilizzata da tutti i medici, anche quelli di base, e che li metterà in grado di emettere un responso diagnostico inequivocabile rispetto a un’ipotesi di Parkinson, già nelle primissime fasi della malattia.
“Non solo – prosegue di Biase –, stiamo lavorando anche a uno strumento per ottimizzare l’efficacia delle terapie, che attraverso micro-sensori impiantabili sarà in grado di ‘dosare’ la quantità di farmaco più adatta e indicata per le specifiche condizioni del paziente, variandola se necessario di ora in ora, in modo da mantenerlo sempre adeguatamente mobile”. “Un sistema simile a ciò che esiste oggi per i malati di diabete”, chiarisce Di Biase.
Il ricercatore dell’Università Campus Bio-Medico di Roma è fiducioso di riuscire a concludere tutti i trials clinici di validazione dei quattro device entro il 2020. A quel punto, se tutto andrà come sperato, potrebbe davvero iniziare un’altra vita per i pazienti parkinsoniani: una giornata non più tormentata da multiple fluttuazioni giornaliere della propria capacità di movimento – tra momenti di ‘blocco’ motorio, fasi caratterizzate da movimenti involontari e altre in cui torna nuovamente possibile controllare il proprio corpo. Il sogno futuro di una vita migliore, per questi pazienti, potrebbe insomma essere già ormai quasi presente.