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Anche nel nostro Paese, le ICA, ovvero le infezioni correlate all’assistenza, rappresentano l’evento avverso più frequente in sanità. Un problema serio e molto diffuso, nonché la complicanza più grave nella cura dei pazienti ospedalizzati che è stato il tema di un dibattito, promosso a Milano da J&J Medical, con la partecipazione di opinion leader di diversa estrazione, a cominciare da chirurghi, quali il Prof. Marco Montorsi, Presidente della Società Italiana di Chirurgia e Responsabile di Unità Operativa Chirurgia generale e digestiva Humanitas Research Hospital e il Prof. Enrico Opocher, Direttore del reparto di Chirurgia Epato-Bilio-Pancreatica e Digestiva – Ospedale San Paolo di Milano, che hanno ribadito come la maggiore attenzione alle infezioni sia frutto, anche, di una presa di coscienza della classe chirurgica sul problema.
Dagli interventi complessi di chirurgia oncologica addominale alla protesica, fino alla chirurgia ginecologica e ostetrica, le SSI costituiscono circa il 32% di tutte le infezioni ospedaliere, ma, di fatto, sono anche le più gravi perché veicolo di complicanze severe. Addirittura, i pazienti che contraggono una SSI sono, infatti, 5 volte più esposti al rischio di una nuova ospedalizzazione, 2 volte più esposti al rischio di degenza in una unità di terapia intensiva e 2 volte più esposti al rischio di morte. In mancanza di un sistema stabile di sorveglianza su questo tipo di infezioni, è fondamentale abbattere il rischio di contrarre un’SSI fin dall’ingresso in sala operatoria, come spiega in proposito Enrico Opocher: «Causate da microrganismi presenti nell’ambiente, che solitamente non danno luogo a infezioni, le SSI insorgono più frequentemente in pazienti ad alto rischio sottoposti a chirurgia addominale durante il ricovero o, in qualche caso, anche dopo la dimissione e possono avere diverso grado di gravità, fino ad essere letali. Oggi, però, è possibile abbattere di un terzo l’insorgenza delle SSI grazie a una serie di correttivi che vanno ad intervenire sui fattori di rischio modificabili, come suggerito dalle raccomandazioni dell’OMS nelle ‘Global Guidelines for the Prevention of Surgical Site Infection’ elaborate nel 2016. Tra queste, sottolineiamo l’antisepsi della cute tramite il lavaggio accurato delle mani, il corretto uso degli antibiotici, che non devono essere più utilizzati nel post-operatorio ma solo all’atto dell’intervento chirurgico e l’utilizzo delle suture rivestite con antibatterico».
«Proprio perché il nostro lavoro per il 60% del tempo si svolge in sala – ha ribadito Marco Montorsi – a livello intraoperatorio noi chirurghi siamo chiamati ad adottare una tecnica che sia il più precisa, accurata e gentile possibile e che è alla base del successo della nostra operazione. Gli anestesisti ci aiutano a monitorare alcuni parametri dei nostri pazienti, come glicemia, ossigenazione e temperatura corporea, ma noi dobbiamo utilizzare ciò che l’innovazione tecnologica ci mette a disposizione per prevenire le SSI, comprese le suture anti batteriche che oggi hanno un livello di evidenza talmente sostanziato dai dati che vanno sempre più introdotte e utilizzate nelle nostre sale operatorie. Altrettanto fondamentale è, inoltre, continuare a misurare il fenomeno delle ICA e a raccogliere dati per circoscrivere il rischio di queste complicanze, proprio come stanno già facendo autonomamente due importanti Regioni, quali Lombardia ed Emilia Romagna. Come Società Italiana di Chirurgia, il prossimo progetto che prenderemo in esame sarà perciò proprio sulle infezioni, cercando di trasferirlo anche a livello regionale, incrementando così la raccolta di dati sul fenomeno».
Oltre a essere, ovviamente, un problema sanitario che mette a rischio la sicurezza del paziente, le ICA sono anche un fenomeno dal notevole impatto socio economico: tanto che si stima un costo correlato a una singola infezione ospedaliera di circa 9.000 – 10.500 euro. Complessivamente, il loro impatto economico sul Sistema Sanitario Nazionale è superiore a un miliardo di euro l’anno, con un prolungamento della degenza pari al 7,5-10% delle giornate di ricovero. In questo scenario, le SSI sono tra le più costose. Un aspetto ben evidenziato dalla ricerca “Burden economico delle infezioni ospedaliere in Italia”, realizzata dal Prof. Francesco Saverio Mennini, Research Director CEIS Economic Evaluation and HTA, Facoltà di Economia, Università di Roma Tor Vergata, che intervenendo al dibattito ha sottolineato: «è un dato di fatto che un paziente che contrae un’infezione ospedaliera resta più a lungo in ospedale e impiega più risorse. Partendo dal presupposto che le infezioni ospedaliere compaiano in circa 3 casi ogni 1.000 ricoveri acuti in regime ordinario, la loro valorizzazione mediante valutazione delle giornate aggiuntive per singolo diagnosis related group ha comportato una stima media annua di 69,1 milioni di euro. Non solo: il focus su 6 interventi selezionati dagli OL coinvolti ha evidenziato un aumento della durata di degenza pari in media a 12 giornate e stimato un incremento del costo medio per singolo ricovero compreso tra 4.000 e 9.000 euro. Numeri che devono far riflettere soprattutto sull’opportunità di adottare misure innovative, come trattamenti e device tecnologici, con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’assistenza nel limite delle risorse disponibili». Una tematica, quella dell’appropriatezza, fortemente sentita anche a livello ministeriale: ragione per cui Francesco Mennini ha ribadito il suo auspicio per la creazione di un Osservatorio permanente sulle infezioni ospedaliere in collaborazione anche con il Ministero della Salute. L’idea è quella di realizzare una struttura di controllo che possa monitorare annualmente il quadro nazionale delle ICA, anche sulla base della sorveglianza epidemiologica diretta, mettendo in luce proprio il criterio dell’appropriatezza.
La prevenzione e il controllo delle infezioni ospedaliere sono dunque un obiettivo prioritario di sanità pubblica per cui il lavoro coordinato di prevenzione, qualità e controllo del rischio su tale tematica è ritenuto prioritario. In uno scenario in divenire come questo, in ogni struttura sanitaria, diventa quindi fondamentale proprio la figura del risk manager, deputato a individuare gli strumenti per valutare e governare i rischi. «La gestione del rischio clinico in sanità, di cui le ICA costituiscono un elemento importante – ha dichiarato il dott. Enrico Burato, direttore SC qualità accreditamento risk management Ospedale Carlo Poma, Mantova e componente dal 2005 del gruppo di lavoro di risk management in Regione Lombardia – è l’insieme delle azioni messe in atto per misurare i fenomeni, comprenderne le cause e migliorare la qualità delle prestazioni sanitarie al fine di garantire la sicurezza dei pazienti. In tal senso, il controllo globale sull’esposizione al rischio dei pazienti potrebbe ridurre l’incidenza delle infezioni chirurgiche ospedaliere. Compito del Risk Manager è, quindi, quello di individuare gli strumenti per valutare e governare i rischi, ricercandone i miglioramenti nel sistema di gestione complessivo, sviluppando strumenti efficienti e identificando le conseguenze sanitarie ed economiche derivanti dall’esposizione al rischio stesso dei pazienti. Un obiettivo oggi possibile che deve, però, essere perseguito con una logica di sistema e con la collaborazione di tutte le figure professionale interessate dal problema all’interno di ogni singola struttura sanitaria». E questo con la costruzione di sistemi di sorveglianza e con l’individuazione delle cosiddette “buone pratiche”, ma anche con l’aderenza a linee guida internazionali, quali le ‘Global Guidelines for the Prevention of Surgical Site Infection’ dell’OMS e “The Centers for Disease Control and Prevention Updated Guideline”, oltre alla valutazione EUNetHTA , la rete europea per la valutazione delle tecnologie sanitarie, insieme all’attività di formazione, informazione e auditing all’interno delle strutture sanitarie.
Nel corso del dibattito è emerso in maniera preponderante la necessità di diffondere una maggiore cultura sulle ICA all’interno delle singole strutture sanitarie, grazie al monitoraggio della loro incidenza e all’adozione di programmi di prevenzione con un approccio sempre più multidisciplinare. In quest’ambito si inserisce di diritto anche il farmacista ospedaliero, la cui funzione oggi sta cambiando radicalmente, come ha precisato il dott. Mario Giacomo Cavallazzi, Specialista in Farmacia Ospedaliera I.R.C.C.S. Istituto Ortopedico Galeazzi: «si tratta di un professionista chiamato a coniugare la necessità di migliorare l’assistenza al paziente, il monitoraggio dell’appropriatezza dell’uso di farmaci e dispositivi medici e la capacità di razionalizzare i costi. Il farmacista ospedaliero opera quindi in stretta collaborazione con il medico avendo come riferimento centrale la patologia, l’assistenza, il percorso di cura e il benessere del paziente, garantendo un uso sicuro ed efficace del farmaco e l’ottimizzazione dell’appropriatezza e aderenza della terapia, attraverso un miglioramento del processo di valutazione, acquisizione, prescrizione e uso razionale dei farmaci e dei dispositivi medici. Partecipando attivamente anche al processo di acquisizione di farmaci e device innovativi all’interno dell’organizzazione sanitaria, il farmacista è il riferimento per la valutazione delle nuove cure attraverso l’analisi farmacoeconomica degli interventi».
Elaborate per migliorare la lotta contro le SSI e, globalmente, la sicurezza la qualità e la sostenibilità dei sistemi sanitari, le nuove ‘Global Guidelines for the Prevention of Surgical Site Infection’ dell’OMS sono state pubblicate su “The Lancet Infectious Diseases” il 3 novembre 2016 e includono un elenco di 29 raccomandazioni concrete, stilate da 20 dei maggiori esperti mondiali, frutto di 27 revisioni sistematiche, condotte tra il 2013 e il 2015, per fornire evidenze di supporto allo sviluppo di tali raccomandazioni. Le linee guida comprendono 13 raccomandazioni per il periodo che precede l’intervento chirurgico, e 16 per la prevenzione delle infezioni durante e dopo l’intervento. Una di queste raccomandazioni riguarda, nello specifico, l’utilizzo di suture rivestite con triclosan al fine di ridurre il rischio di SSI indipendentemente dal tipo di intervento. Il Triclosan è un antibatterico efficace, ben tollerato e sicuro, che distrugge le membrane cellulari dei batteri ed è attivo anche su miceti, micobatteri e spore. Le suture con antibatterico, quindi, non solo non rappresentano più un fattore che contribuisce all’eventuale insorgenza di un’infezione della ferita chirurgica, ma riescono, infatti, a diminuire di circa il 30% il numero di batteri a livello di incisione chirurgica dove la maggior parte delle infezioni postoperatorie hanno origine, riducendo significativamente anche l’adesione dei batteri alla sutura. Con importanti conseguenze anche sulla spesa ospedaliera di gestione delle infezioni del sito chirurgico. Alle raccomandazioni dell’OMS, si aggiungono altre evidenze scientifiche a supporto del valore delle suture con antibatterico rispetto a quelli comuni, anche “The Centers for Disease Control and Prevention Updated Guideline” e la valutazione EUNetHTA, la rete europea per la valutazione delle tecnologie sanitarie. In particolare, l’aggiornamento della Centers for Disease Control and Prevention Guideline for the Prevention of Surgical Site Infection, pubblicato nel 2017, consiglia di utilizzare il filo da sutura rivestito di Triclosan, per la prevenzione delle infezioni del sito chirurgico. Questa valutazione viene sostenuta anche da EUnetHTA, nelle conclusioni del documento “Antibacterial-coated sutures versus non-antibacterial coated sutures for the prevention of abdominal, superficial and deep incisional, surgical site infection. L’analisi di diversi studi ha infatti evidenziato una diminuzione di infezioni del sito chirurgico, con l’utilizzo di filo da sutura rivestito con Triclosan.