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La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza senile, uno stato provocato da una progressiva perdita di cellule neuronali in specifiche aree del cervello e da una alterazione delle funzioni cerebrali, che colpisce in Italia il 5% delle persone con più di 60 anni. 

Numerosi studi hanno dimostrato che le modificazioni epigenetiche indotte da fattori scatenanti ambientali, quali lo stile di vita e l’alimentazione, possono influenzare la funzione cerebrale e la neurodegenerazione. Questi meccanismi sono in grado di alterare l’espressione dei geni e compromettere la funzionalità delle cellule del nostro organismo, ma non di alterare la sequenza del DNA, per cui la loro azione è reversibile. 

Per tale ragione è di fondamentale importanza ottenere una diagnosi precoce della malattia, al fine di identificare e applicare una terapia che blocchi la neurodegenerazione o ritardi la progressione verso le fasi più gravi della malattia. 

In un nuovo studio internazionale, coordinato dal team di ricercatori del Dipartimento di Medicina sperimentale della Sapienza in collaborazione con le università di Pisa, Barcellona, Amsterdam, Vienna e Gerusalemme, è stata scoperta un’associazione fra l’alterazione del gene Presenilin1 e la malattia di Alzheimer. In particolare, è stato osservato, per la prima volta in campioni umani, come tale alterazione dipenda dalla metilazione “non-CpG”, una modificazione epigenetica in grado di lasciare una specifica “impronta” su PSEN1 e attivare una serie di meccanismi molecolari che inducono la sovraespressione del gene. 

I risultati del lavoro, pubblicati sulla rivista Epigenetics, suggeriscono la metilazione “non-CpG” come possibile biomarker da monitorare sia per identificare i fattori ambientali in grado di innescare il processo di neurodegenerazione, sia per valutare la risposta a un trattamento terapeutico per la malattia.

“La metilazione delle citosine, una delle quattro basi del DNA – spiega Andrea Fuso, coordinatore del team – è una delle modificazioni epigenetiche in grado di modulare l’espressione dei geni: più un gene viene metilato, più viene silenziato e viceversa. Finora – aggiunge Fuso – è stata studiata quasi esclusivamente la metilazione delle citosine seguita dalla guanina, noi abbiamo osservato la metilazione di tutte le altre citosine e quindi l’ipometilazione e la sovraespressione di PSEN1 nei tessuti dei malati di Alzheimer”. 

Gli studi sperimentali sono stati condotti prima su di un modello murino di malattia di Alzheimer e poi verificati in campioni di tessuto cerebrale umano, confermando una significativa relazione inversa tra l’espressione genica e la metilazione del DNA nei pazienti con Alzheimer. 

Successivamente sono stati analizzati campioni di sangue di 20 pazienti affetti Alzheimer a esordio tardivo e i risultati sono stati confrontati con un gruppo di controllo di 20 soggetti sani per verificare se i cambiamenti nella metilazione di PSEN1 potessero essere rilevati nel sangue umano.

“L’analisi dei campioni di sangue – spiega Fuso – ci ha permesso di rilevare una minore metilazione del DNA correlata alla espressione di PSEN1 nei pazienti con Alzheimer rispetto ai controlli: questo tipo di analisi potrebbe offrire un nuovo modo di diagnosticare precocemente e poco invasivamente l’Alzheimer”. 

Per confermare questo potenziale biomarker occorrono ulteriori studi e una coorte più ampia di individui, ma i risultati ottenuti dai ricercatori offrono già una nuova promettente area di indagine. “Abbiamo rilevato un primo segno della malattia in una modificazione del DNA, o marker epigenetico, che in precedenza era stato trascurato, ma – conclude Fuso – potrebbe fornire un punto di partenza per lo sviluppo di nuove terapie, nonché per una diagnosi precoce”.