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Il valore economico e occupazionale della White Economy: 290 miliardi di euro e 3,8 milioni di addetti. Oggi c’è una domanda crescente di salute, assistenza, previdenza per avere la sicurezza di un futuro lungo e in buone condizioni. A questa domanda risponde la «White Economy», cioè la filiera delle attività sia pubbliche che private riconducibili alla cura e al benessere delle persone. Ha ormai raggiunto un valore di 290 miliardi di euro, corrispondente al 9,4% della produzione complessiva nazionale. E sono 2,8 milioni gli addetti che operano in maniera diretta nei suoi diversi comparti. A questi vanno aggiunti i posti di lavoro che si generano «a monte» e «a valle» come indotto delle attività considerate, che innalzano il numero degli addetti totali a 3,8 milioni, pari al 16,5% degli occupati del Paese. È quanto emerge da una ricerca del Censis realizzata con Unipol nell’ambito del programma «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali». In termini comparativi, la White Economy produce più dei settori delle costruzioni e dei trasporti, ed è seconda solo al commercio. Il 42,2% del valore della produzione è attribuibile ai servizi sanitari, il 17,9% alle attività pubbliche di gestione e regolazione nei settori della sanità, assistenza e previdenza, il 17,7% all’industria del farmaco e delle attrezzature medicali, il 10,6% alla previdenza complementare e alle assicurazioni del ramo salute, il 10,4% alle attività di personal care, l’1,1% all’istruzione universitaria negli ambiti considerati. In questo campo la produttività (il valore aggiunto generato dalle attività comprese nella filiera rapportato al numero di persone che vi lavorano) è di 60.000 euro per addetto: un dato che colloca la White Economy sopra agricoltura, costruzioni, ristorazione, commercio e inferiore solo ad alcuni comparti del manifatturiero e del terziario avanzato. La filiera economica della cura, dell’assistenza e della previdenza per le persone è anche un formidabile volano di sviluppo per il Paese, perché genera rilevanti effetti moltiplicativi sul resto dell’economia. Ogni 100 euro spesi o investiti nella White Economy attivano 158 euro di reddito aggiuntivo nel sistema economico. E ogni 100 nuove unità di lavoro nella White Economy ne attivano ulteriori 133 nel complesso dell’economia italiana. Di questo si parlerà domani all’evento Censis-Unipol nelle tre sessioni parallele su sanità, assistenza e previdenza, cui parteciperanno cinquanta addetti ai lavori tra esperti, stakeholder, operatori privati e decisori pubblici, e nella sessione plenaria, dove interverranno, tra gli altri, mons. Rino Fisichella, Presidente del Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, Beatrice Lorenzin, Ministro della Salute, e Carlo Cimbri, Amministratore Delegato del Gruppo Unipol.
Con l’allungamento della vita media, continua a crescere la domanda di cure e di assistenza. Nel 2030 saranno più di 4 milioni le persone in cattivo stato di salute. E i portatori di almeno due patologie croniche saranno più di 20 milioni. Negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2014, la spesa sanitaria pubblica è diminuita del 3,4% in termini reali. E oggi sono meno del 20% gli italiani che affermano di trovare nel welfare pubblico una piena risposta ai loro bisogni. Più della metà delle famiglie di livello socio-economico basso è convinta che un eventuale aggravio dei costi per il welfare sarà incompatibile con i loro redditi disponibili. L’accesso alle prestazioni socio-sanitarie divide in due l’Italia. Nelle regioni del Mezzogiorno l’82,8% della popolazione ritiene non adeguate le prestazioni offerte dal servizio regionale, mentre al Nord-Est e al Nord-Ovest la percentuale scende rispettivamente al 34,7% e al 29,7%.
La spesa sanitaria pubblica è pari al 6,8% del Pil del Paese, un valore più basso di quello di Francia (8,6%), Germania (8,4%) e Regno Unito (7,3%). La spesa sanitaria privata ammonta invece al 2% del Pil, un valore inferiore alla media dei Paesi Ocse (2,4%) e al dato di tutti i Paesi europei più avanzati. La quota di spesa privata intermediata da soggetti economici specializzati, come lecompagnie assicurative, è pari oggi al 18% del totale della spesa sanitaria privata. Anche prescindendo dal confronto con gli Stati Uniti, che hanno un modello di welfare molto diverso dal nostro (in questo caso sale al 77,7% la quota di spesa intermediata), il dato italiano è molto più contenuto di quello di Francia (67,1%), Germania (44,4%) e Regno Unito (43,6%), e testimonia il carattere «molecolare» della spesa sanitaria privata italiana.
Con i bisogni di assistenza delle persone disabili e non autosufficienti si confrontano molte famiglie italiane. Sono più di 3 milioni le persone che soffrono di difficoltà funzionali gravi. Tra queste, 1,4 milioni sono confinate all’interno della propria abitazione e bisognose di cure diurne e notturne. La spesa pubblica per l’assistenza è in fase calante dal 2010, pure a fronte di una domanda crescente. In valore pro-capite della spesa è pari a 400 euro l’anno, un dato inferiore alla media europea. Di fronte al ritardo nella progettazione di sistemi di long term care centrati su soluzioni diverse dall’ospedalizzazione e a causa delle difficoltà economiche che limitano il ricorso a soluzioni residenziali, gli italiani scelgono anche in questo caso un modello del tutto spontaneo e ad elevata molecolarità, basato sul reclutamento diretto delle badanti. Per il 65% degli italiani questa è una soluzione da valutare positivamente, l’11% ritiene che sia una scelta priva di alternative reali, il 24% invece valuta negativamente l’assenza di professionalità adeguate e certificate.
Dopo l’ultima riforma i conti pubblici sono in equilibrio (il rapporto tra spesa pensionistica e Pil è destinato a calare lentamente), ma la sfida per il sistema previdenziale, per i lavoratori di oggi e per i pensionati di domani, attiene al quantum dei futuri assegni pensionistici. Molti lo hanno capito: nell’ultimo decennio il numero di adesioni alla previdenza complementare è più che raddoppiato, passando da poco meno di 3 milioni di iscritti nel 2005 agli attuali 6,5 milioni. Si segnalano però due criticità. La prima è legata alla crisi economica che ha fatto sì che nel 2014 1,5 milioni di iscritti non abbiano versato i contributi. La seconda è relativa alla disomogeneità delle adesioni: il tasso di adesione è del 18% al Sud (sale al 30% al Nord) e del 16% tra i più giovani, con una età inferiore a 35 anni (mentre il dato nazionale si attesta al 25,6%). Non aiuta il fatto che oggi solo il 24,3% degli italiani ha una conoscenza precisa della propria posizione pensionistica.